martedì 16 ottobre 2012

XXXV) I sacri furori dell'Avanguardia

C'era una volta Darmstadt, amena cittadina tudesca nei pressi di Francoforte sul Meno. Fecero storia, e scàndalo, i suoi "Corsi estivi musicali ("Ferienkurse fuer internationale Neue Musik"), di cui èrano pontèfici màssimi compositori come Karlheinz Stockhausen, Johan Cage, Mauricio Kagel, Sylvano Bussotti, Olivier Messiaen, Luigi Nono, Luciano Berio, Gyorgy Ligeti: allora, negli anni Cinquanta, giòvini contestatori e dissacratori. Ed èrano affatto persuasi, loro, che il mondo, compreso quello dei suoni, fosse assoggettàbile alle utopìe per via rivoluzionaria. Darmstadt assurse per circa un quindicennio, tra il 1950 al 1965, a "tempio" ove la mùsica del passato pròssimo, da Wagner a Schoenberg, veniva inesorabilmente "smascherata" e dichiarata morta. Parola d'òrdine era "Sia fatta tabula rasa". Erano giòvini a Darmstadt, e perciò intransigenti e dogmàtici.

Gli è che questi musicisti, pur valentissimi, molti dei quali noverati dipoi fra i grandi del Novecento (a torto, a ragione?), si credèttero che l'arte potesse èsser assimilate al concetto illuminìstico di Progresso, o ad un ragionamento o sillogismo onde, poste alcune premesse, dovèssero di necessità discèndere alcune conseguenze. La premessa era che la sintassi dodecafònica, ancora legata alla matrice espressionista di "papà" Schoenberg, risultava irrimediabilmente esaurita: l'aveva sentenziato anche Pierre Boulez in un cèlebre artìcolo del 1952. La conseguenza: occorreva affidarsi all'insegnamento di uno tra i "figli" di Schoenberg, Anton Webern (l'altro era Alban Berg), che il linguaggio paterno aveva metamorfosato con lògica stringente in una sorta di pulvìscoli, di nùclei atòmici, da riordinarsi mediante un ferreo còdice d'impianto costruttivìstico, al cui interno l'espressività, il sentimento, il cuore (fetente, oscenìssima parola) èrano banditi.

La monarchìa assoluta di Darmstadt legiferava: "Ora la mùsica o è avanguardia o non è". Dirà anni appresso l'argentino Kagel che per principio a Darmstadt era affermato che il livellamento gerarchico dei dòdici suoni assumeva un significato polìtico: era un fatto di democrazìa dopo gli sconvolgimenti europei generati dalla dittatura nazi-fascista e dalla guerra. "Sottises", non molto dissìmili dalle asserzioni dei musicòlogi di fede nazista per i quali Beethoven era Beethoven perché tudesco, e il degenerato Schoenberg era tale perché ebreo.

Un novello sacro furore turbinò sui "Ferienkurse" all'arrivo dello statunitense John Cage e del teutonico Stockhausen. Momenti d'audace pionierismo, d'idoleggiamento iconoclàstico, che fecero indietreggiare lo stesso Theodor Wiesengrund Adorno, teòrico supremo della Neue Musik. Si discuteva d'opere commesse al Caso, di pura grafìa, d'interpretazione lasciata aperta dall'autore all'esecutore... E quanto più il pubblico extra moenia rimaneva esterrefatto, e si scandalizzava per la rabida provocazione di quella mùsica larvale, tanto più i darmstadttiani, chiusi in una turris eburnea, si stropicciavano gioiosi le mani per l'intrepidezza posta in campo, per la propria "verità" estètica risolta sul piano teòrico nella radicale negazione di qualsivoglia estètica.

Dall'iperrazionalismo all'irrazionalismo tout-court il passo era breve. Bussava alla porta la mùsica del silenzio. Fu Cage a (s)comporre quella "Sonata in tre movimenti per pianoforte" che imponeva all'intèrprete di sollevare e riabbassare il coperchio dello strumento rispettivamente all'inizio ed alla fine di ogni tempo, senza mai suonare una nota. E per imprimere un suggestivo paràmetro rìtmico al silenzio il compositore americano scrisse un pezzo consistente nel battere colpi di gong ad intervalli di tempo regolari per un lasso di tempo imprecisato. Accadde a New York che l'esecutore neòfita prese a battere il pomeriggio e non cessò che la mattina successiva...

Ma a Darmstadt l'Avanguardia sapeva provocare anche in altre trastullèvoli maniere. Mettiamo: poggiare sul pianoforte cubetti di legno, l'uno sopra l'altro, sino a che la torre non cadesse sulle corde verisimilmente suscitando nell'ascoltatore trasalimento non disgiunto da angoscia. Bussotti fu una sera l'interprete del "Concerto per solista e pubblico" di Stockhausen: il solista poteva impiegare un qualunque strumento, mentre il pubblico partecipava all'esecuzione dell'òpera appalesando le proprie schiette reazioni di fronte all'imprevedìbile performance del solista suddetto. Nàrrasi che il Bussotti seminascosto sul palcoscenico si cambiò i pantaloni, apparendo sfolgorante in velluto crèmisi. Tramàndasi che la reazione della platea fu intensa...

Nel secolo dècimo ottavo aveva notato il commendèvole scienziato svedese Carl von Linné che  "natura non facit saltus". Nel caso di Darmstadt il principio stava a significare quanto fosse improbàbile cimento recìdere il cordone ombelicale con la Tradizione.

XXXIV) Carmen

Non sempre c'ha ragione Verlaine quando canta che "La chair est sainte! Il faut qu'on la vénère". Prendiamo ad esempio Carmen.

Carmen ha invaso e conquiso il mondo. Dìcesi che sia stata femminista ante litteram, e di quelle a tutto tondo: senza ubbìe o scrùpoli, anzi con ghiotto scandalo, come un fiotto di fatale parfum. E il mondo, almeno la metà, è oggi delle femministe: buon pro gli faccia. A trattare di questa corrusca "signorina" di fuoco - che mai volle passar per "signora" - si sono succedute esimie voci di letterati, musicisti, sociòlogi, filòsofi, pittori, crìtici a dir la loro che, comunque detta, è sempre stata d'ammirazione commovente ed eccitata. Protòtipo di vamp rubella e libertaria, non già alla Marylin, affatto coccolona, o delle sue colleghe affini, esuberanti mangiatrici d'uòmini e però in qualche modo timorate e saziabili, e in ogni caso addomesticate "ab origine" al sistema maschilista che le ha create per propria congènita necessità e lùdico sadismo. No. Carmen è sanza compromessi, d'un volto solo e monocromàtico, d'un'ingordigia sorda e monotemàtica. Ma, dopo aver ben ponderato, non è da esclùdere che tante lodi al di lei indirizzo sgòrghino da una propensione fanàtica, da un giudizio impulsivo e mìope.

 Carmen non è donna pensante bensì mero èssere agente, mosso da brame e arsioni viscerali che col pensiero e la libertà - ch'è figlia al pensiero - hanno poco o punto in comune. Anzi, il pensiero mai ricevette, se possìbile, più tosta batosta dall'agire donnesco. La "signorina" svola di maschio in maschio, frascheggiando annebbiata e avida come quelle bottiglie truccate che per quanto t'imbufalisci ad empire sono sempre vuote. Carmen, di pensiero vuota, lo è d'ogni altra cosa eccetto che della sua mulàggine sensuale. Dispregia con orgoglio lavare piatti, spolverare la mobilia, còcere due ova al tegamino, ma, meschinetta, prigioniera del suo minùscolo orizzonte non sa fare altro che tinnire, trillare, sgallettare smancerosa, sùccuba d'una fràgil foia che, forse, è pur finta nella sostanza.

Non già, dunque, la sigaraia feriale come fiero ideale d'emancipazione del sesso dèbole dall'atàvica sottomissione al crudele sesso barbuto; e del resto, neppure terrìbile magalda licenziosa e dongiovannesca alla Lulu, bensì siloetta imbizzita, che si scalmana contro ciò di cui non è in grado neppure d'èssere pietosa vìttima. Come donna poi è una frana. E quando strilla acìdula a quel disperato babbione di Don José: "Fra noi tutto è finito", mente sapendo di mentire, poiché una lògica elementare le insegna che non si dà fine ove non ci sia stato cominciamento, a che lei è impotente per irrimediàbile difetto di costituzione (di cui peraltro non ha colpa).

XXXIII) Abbado e Muti


Claudio Abbado e Riccardo Muti: due musicisti di grande civiltà, permeati d'una forte cultura umanìstica e di un eccellente istinto direttoriale. Dotati di quell'impalpàbile "carisma" che vale di presupposto per chiunque ambisca salire sul podio con le carte in règola. Ma non v'ha dubbio che divèrgono le loro personalità artistiche. C'è nel Muti musicista una fucina di gioia e d'intraprendenza, un'ànima tumultuante di suoni, una kermesse di poètica musicale che il maestro meridionale, a prescìndere dai crudi dati anagràfici, lo chiameremmo ancora "il giovane Muti". A differenza di Abbado, risiede in Muti fin dalle origini una sòrta di nicciana inclinazione alla solarità mediterranea, al paesaggio vìvido e acceso, ai frutti di una terra di verginale e spudorata bellezza meridionale: musica, canto e salubrità. Le vampate di Verdi non sono mai tanto rapinose come quando a scolpirle è Muti. E però ciò che più vale in lui è la piena consapevolezza di questa ispirazione pànica: tale da indurlo allo stretto rigore di un atteggiamento critico idoneo a governare e controllare l'emporio dei suoi anèliti, delle sue formidabili bramosìe. A tal propòsito il suo Mozart appare d'affascinante sfaccettatura e levità poètica intrise di melanconìa: come il sole che tramonti nel verdeggiare dei campi estivi.

 La tempra artìstica, musicale e direttoriale di Claudio Abbado si diversìfica assai, fino a raggiùngere talvolta una maniera antitètica, da quella di Muti. Se Muti è un Corneille, Abbado è un Racine. Se il primo è un romantico, il secondo è un razionalista illuminista. Se Muti è un poeta lìrico, Abbado è un architetto utòpico del Settecento. Per Muti la mùsica è fondamentalmente ispirazione, un "voler èssere"; per Abbado il linguaggio dei suoni è un "dover èssere", e poggia su un òrdine indefettìbile. Il pathos Muti lo trae dalla spontanea effusione e svolgimento del testo; Abbado lo costruisce e modella sulle motivazioni di òrdine lògico-formale che lo stesso testo comprende. Per Abbado la bellezza tanto più rifulge e provoca l'ascoltatore quanto più è conseguenza necessaria e tetràgona di un impegno raziocinante e di un èsito intellettuale. Aleggia uno spìrito di matematica nel canto abbadiano, tant'è che il suo Rossini risulta insuperato, ed è la ragione più sottile del valore del maestro milanese. Del quale non stupisce dunque la predilezione, manifestata in varie occasioni, ad  affrontare quelle òpere sovente dure e sofisticate dei compositori novecenteschi e contemporanei che di norma Muti rifugge d'istinto. Sotto tale profilo Abbado sembra più attuale del "rivale", più interessato alle esperienze della modernità: la sua orchestra più lùcida e affilata, il suono più trasparente e virtuosistico. Il suo Mahler è straordinario per acutezza di lettura e tràgica maestosità...

Non è un caso se Muti è adorato soprattutto dai viennesi, umanità esuberante; Abbado dai tedeschi, produttori indefessi di sistemi e cultori sopraffini della pura sistematicità.

XXXII) Il "Bello"


E' più che evidente che non è possìbile giudicare "belli" un film, una commedia, un quadro, un romanzo, una musica, un lago, un'aurora, et cetera, se non si sa che cosa sia il "Bello", così com'è impossìbile affermare che una minestra è troppo salata se non si sa che cosa sia il sale, ed un uomo uno "stronzo" se non si sa che cosa sia la "stronzaggine". In effetti, "arduo cimento è (stabilire) che cosa sia il Bello", avverte Platone a conclusione dell'"Ippia maggiore". Ed è trascorso più di un sècolo da che la declinante cultura occidentale, nella fattispecie l'Estètica, ha smarrito un qualsivoglia concetto del "Bello".

Nell'antica Grecia, se il pensiero estètico della Scuola pitagòrica fondava il "Bello" sul concetto di "armonìa", il citato Platone condannava l'arte nel Dialogo della "Repubblica" ma l'esaltava nel "Cratilo" e vieppiù nelle "Leggi". Al di là del contraddittorio bilicare del giudizio, il filòsofo idealista faceva riferimento alla "mìmesi", o imitazione, della natura: "L'artista non crea ma si lìmita ad imitare, sicché l'òpera d'arte è azzeccata nella misura del suo èsito mimètico". In altri tèrmini, un'òpera sarebbe tanto più "bella" quanto più cogliesse e rappresentasse i segreti e le superfici della realtà/natura. Più radicale Plutarco che sulla scia platònica metafisicizzava il concetto di "mimesis" nell'asserzione che il "Bello" è tale non perché "bello" ma perché "ìmita" e "somiglia". Per l'estètica aristotèlica il "Bello" si poneva in rapporto alla capacità catàrtica dell'òpera stessa, la quale era bella se imitava non già le cose accadute ma le cose quali sarèbbero potute accadere: donde si vede il rilevante ampliamento d'orizzonte compiuto dallo Stagirita che siffattamente contempla la possibilità d'intervento della fantasìa nella dimensione artìstica.

Nel primo sècolo p.Ch.n. con accenti quasi romàntici l'Anonimo del "Sublime" additava il "Bello" nell'èstasi conseguita attraverso la concitazione e la passionalità; Plotino nell'ideale di cifra trascendentale e mìstica, cui il razionalismo aristotèlico di Tommaso d'Aquino attribuiva notoriamente tre requisiti: "integritas", "proportio" e "claritas". Nell'età rinascimentale il "Bello" era ritenuto strettamente connesso ad un progetto e ad una finalità pedagògici dell'òpera d'arte, intanto che nella posteriore època cartesiana e nella civiltà dell'Illuminismo l'arte era considerata tale in quanto la sua sfera fantàstica era fondamentalmente determinata e presieduta dall'attività ordinatrice della ragione: dall'ésprit de géométrie, e sono da valutare al propòsito le teorìe estètiche da Bacone a Boileau, da Pascal a Leibniz, da Baumgarten a Vico, etc...

La più clamorosa svolta del concetto di "Bello" fu impressa dalla civiltà romantica, nella quale il pensiero idealìstico non solo ridusse la filosofìa ad "ancilla" dell'arte (Schelling), capovolgendo in tal modo l'estètica razionalìstica dei sècoli dècimo sèttimo e dècimo ottavo, ma elevò l'òpera d'arte ad acme della vita spirituale (F.H.Jacobi, Schelling, F.Schleiermacher), o, più ancora, ad apparenza fìsica del Logos: ad espressione sensìbile dell'Assoluto (Hegel). Di poi in Italia Benedetto Croce specificherà che il "Bello" inerisce all'intuizione del Sentimento; Giovanni Gentile, al Sentimento stesso.... Con il crepùscolo dell'Idealismo e dei suoi affaticati epìgoni cade l'ultima definizione sistematica dell'Estètica e, dunque, del "Bello", dalla cui rifondazione, come s'accennava all'inizio, il miserando Novecento è rifuggito con una sorta di rabbioso "cupio dissolvi"...

 A partire dalla metà del sècolo ventunesimo il "Bello" è stato registrato come realtà superflua, se non proprio indecente o aliena dal caràttere della poesìa. Non restava che sottoscrivere l'elementare principio formulato da Jacques Maritain: "Pulchrum est id quod placet", ovvero "è bello ciò che piace". Così il "Bello" precipitava in una pseudo categorìa assolutamente soggettiva che si rifrangeva empiricamente in infinite, disparatìssime e contraddittorie definizioni. Ad elìdersi l'une coll'altre.

XXXI) La compostezza

I grandi eventi dell'emozione, i sentimenti profondi gòdono sempre di una profonda "compostezza", che li rende inamovìbili e inchiodati all'èterno sotto l'accavallarsi affannoso degli accadimenti, delle sensibilità, delle mode, dei gusti, ossia de' tempi. Non è questa la compostezza propria dell'aridità che suole celare dietro parvenze di decoro e di politezza un sostanziale vuoto di contenuti; né è la "compostezza" che si estenua sino a ad esaurirsi nel compiacimento celebrativo della propria bella forma, lasciàndosi dietro un acre solco d'insoddisfazione; né è quella "compostezza" che si studia d'arginare e mascherare alla meglio il tumultuare del magma sensoriale, vorticosa aspirazione ma non anèlito d'arte che ascenda e si diffonda in compiuta luce di poesìa.

La "compostezza" cui ci riferiamo è il resultato dell'armoniosa consapevolezza del possesso di un bene totale e inalienabile, che nutre la propria felicità, e dunque la propria bellezza (che sono analoga cosa), con la somma e la risoluzione delle tensioni - oltreché indistintamente emotive - intellettuali, civili e morali dell'èssere umano. E' la "compostezza" sovrana dell'uomo e dell'artista che riconosce se stesso nella coscienza di un fine conseguito da cui è esaltato e insieme pacificato con il mondo esterno a sé. E' la "compostezza" che ha idealmente arrestato il confuso fluire della Storia per estrarre e appalesare l'incorrutibilità e la perennità dei frammenti di cui la Storia è vertiginosamente costituita.
La "compostezza" nell'arte è il Classicismo. Nella sfera dell'interpretazione artìstica essa è l'immedesimazione con l'òpera d'arte, còlta nell'equilibrio fra la sua immanenza stòrica e la sua "intenzionalità" a valore assoluto. E' la cultura dell'intèrprete che prende possesso del dato poetico, circoscritto all'època che l'ha prodotto, e lo eleva ad una dimensione astorica ed extra temporale per rènderlo pensiero, o Logos, cristallizzato nell'infinito. Condotta dall'intèrprete ad una trascendenza di pace, l'òpera d'arte non appare più motto esteriore, eccedenza della forma e/o irrequietezza di contenuto, eccesso del sentimento o della ragione, bensì mònade aurorale che riflette l'immàgine dell'armonìa còsmica, il segno dell'illimitata potenza dello spìrito che quell'armonìa ha saputo "immaginare" a proprio desiderio e porre a propria meta finale. La "compostezza" dell'intèrprete fa sì che ogni tentativo di edonismo e di sensualismo sonori confessi amaramente il suo lìmite e la sua caducità; ma pure che il gretto filologismo s'infranga nel corso della superiore ascesa al respiro poetico.

L'intrprete autèntico non sollècita volgari maraviglie, non alletta con fàcili effetti, non infiamma con un virtuosismo tècnico fine a se stesso, non èccita gli istinti viscerali, non gratifica il cattivo gusto di chi gli è di fronte vìttima dell'ignoranza o della malafede dell'esecuzione. L'interprete di valore sa che l'arte non è foraggio al mondo, ma sottile e progressiva gioia dell'ànima.

lunedì 15 ottobre 2012

XXX) L'inferno dei Carmina Burana

I "Carmina Burana", composti dal tudesco Carl Orff nel 1937, sono un'opera di falso e pèssimo antiquariato musicale. Già Nietzsche aveva messo in guardia: "Che la mùsica non divenga un'arte della menzogna" (cfr. "Der Fall Wagner"). E si sa infatti come nulla più della mùsica possa divenire oggetto d'ambiguità. Il linguaggio dei suoni non è pedestre immàgine della realtà, ma, con assai più rischio, specchio del tempo - ciò che i tedeschi definiscono "Spiegel der Zeit" - in cui quella specìfica realtà stòrica, sociale e spirituale agisce e dòmina.

A considerare i "Carmina Burana" d'un sùbito si comprende che la natura profonda, l'autèntico contenuto, il messaggio verace di questa composizione non sono uno spaccato della civiltà alto-medievale tudesca, bensì l'"inferno" tudesco degli anni Trenta del sècolo ventèsimo, allorquando l'òpera di Orff venne alla luce. Nelle intenzioni e nella forma, i "Carmina Burana, canti profani per soli e coro con accompagnamento di strumenti e danza" vogliono riandare ai testi paganeggianti tardolatini, tùdeschi e occitani (raccolti nel Codex Latinus 4660) dei clèrici vagantes e delle loro "Kontrafakturen". Sulla scorta di un astuto miscuglio linguìstico, addobbato da una mùsica brutale e all'apparenza arcàica, compiaciuta fino all'estremo lìmite di se stessa, ove l'alta lezione stravinskijana, màssime sotto il profilo rìtmico, vi incombe depauperata con sfacciatàggine scandalosa.

I "Carmina Burana" additano una concezione cìnica dell'esistenza, la quale s'appalesa soggiogata dalle forze dell'irrazionalità, dalla glorificazione dell'irresponsàbile Alea, dalla concupiscenza dell'Eros inteso come postrema sponda della nàusea e delle voràgini esistenziali. Cupe esultanze da taverna, dionisismo contraffatto, lancinanti brìvidi d'apocalissi, occulte dannazioni: in un'atmosfera di fantasmagorìe i cui barbagli festanti si rovèsciano in ghigni sulfurei. Qui sta la menzogna racchiusa in questa mùsica.

Immediatamente s'avverte in essa un senso di malsanìa per i vapori acri, per la spiritualità infetta che l'imprègnano. La "freschezza" sonora dei "Carmina" si svela una finzione; si scorge montare per contro un requiem dissacrato e blasfemo; si intuisce che non è affatto il Medio Evo a configurarsi in un macabra kermesse; che non è gagliardo primitivismo e baldanza carnale quella corsa al disfacimento dell'ethos; che non è giuoco d'ironìa e di disinganno quella violenza brutalìssima del colore e del ritmo. Il telo si solleva ed ecco porsi a fronte la "traduzione" sonora dell'allucinata esaltazione e dell'ossessività del regime instaurato in Germania nel 1933: si disoccùltano i baccanali delle orìgini del Terzo Reich e del suo tòrbido dinamismo; il tono apologètico e profètico, l'aggressività di un acuminato delirio che, al pari dei "Carmina", ambisce a ricollegarsi ai miti del Sacro Romano Impero.

Quando in principio e al compimento dell'òpera il Coro tumultua su un ritmo martellante, osannato dall'immane clangore delle percussioni che squarciano il plumbeo orizzonte, è dato scòrgere d'accosto il travolgimento della Repùbblica di Weimar, nel mentre quelle fiammate rituali si fòndono a quelle del Reichstag. Il "primitivismo" rìtmico, melòdico e armònico di Orff scolpisce e sanziona il crollo della Ragione che darà sinistra stanza all'epopea dell'istinto bestiale. Il senso di rarefazione sulla superficie di questa mùsica è il volto devastato e diserto dello spìrito impazzito.
Stato di sovreccitata funebrità e d'ineluttàbile precipizio.

XXIX) Novecento adieu

Quasi fosse un sècolo arcaico, sprofondato ed avvolto in brumose e misteriose leggende, il Novecento musicale, eccezion fatta per una breve catena di vette (ad esempio Stravinskij, Prokof'ev, Alban Berg), è tutto dimenticato da se medesimo. Sembra che per una sorta di fatale maledizione ciò che è stato prodotto in questo tempo recente emetta una demònica sostanza che lo espunge dalla realtà del presente. In vero questo drammàtico fenòmeno, che non ha riscontro nelle altre èpoche della storia della mùsica d'arte occidentale, trova motivazione nel gusto e nel consumo musicale di massa, i quali sono venuti a trovarsi in rapporto con linguaggi che ribùttano con forza.

Il gusto del pùbblico si èsplica in un tempo che non è il suo. O, se si preferisce, è la mùsica del Novecento ad offrirsi ad un tempo - ad una civiltà, ad uno Spìrito - che non può o non sa accòglierla. A tutt'oggi il gusto e le inclinazioni di massa, gli abbandoni e le eccitazioni dell'ascolto, sono rimasti ancorati ai vecchi linguaggi tardoromàntici, mentre la mùsica novecentesca - s'intenda la più autèntica e sincera - è stata tesa ad un ventaglio di modi espressivi che s'invèrano nel "probàbile", nel "rischio", nell' "ipòtesi", o sia in un futuro indefinito. Il presente è il vuoto, è la scissione profonda tra produzione e fruizione, è l'epicedio che intona l'indifferenza nutrita dal fastidio. Tant'è che figure di compositori minori del Sei, Sette ed Ottocento, risùltano lusingate non soltanto dall'interesse, se non dal fervore, della musicologìa e della crìtica, ma anche da un'udienza generale vivace e percettiva: si pensi alla risonanza, negli ùltimi decenni del ventèsimo sècolo, suscitata dalle problemàtiche dell'esecuzione filològica connesse alle òpere dell'età barocca e preclàssica. Mentre rilevanti compositori che pur hanno segnato e caratterizzato la vita musicale della prima metà del Novecento sono da lunga pezza riposti nel silenzio: intruppati in un buio stambugio senza porte né finestre affinché l'ignoranza che si ha di loro non si trasformi in tedio.