sabato 13 ottobre 2012

IV) Languori del martirio


Saint-Sebastien: "Il veut du sang, cet éphèbe pàle, du sang, de souffrance, et des ténebrès!". Efebo pàllido come la melanconìa, stremato nel languore del senso; "beau jeune honne", divino giglio fiorito, arciere dalla chioma di giacinto che affronta in èstasi il martirio, bruciante di stimmate. A Sanaé l'officio di trafìggerlo per primo e l'ùltimo invito: "Sanaé, hai tu il mio arco. Presse-le sur ma bouche, avant de le tendre. Qu'il touche mes lèvres et mon am^e. Viens...".

Nella selva d'Apollo, fra antichi làuri, divampa lo spettàcolo molle e profumato del martirio. Il Santo invoca gli arcieri: "Ne tremblez pas, ne pleurez pas! Mais soyez ivres de sang, comme dans les combats...". E nel pianto e nell'ebrietà del sangue vermiglio che cola dal càndido corpo d'Adone di San Sebastiano, il grido lacerante e stàtico: "Votre amour! Vostre amour! Encore! Encore! Encore! Amour éternel!". Non sono bastanti i cori che sèguono dei màrtiri, delle vèrgini, degli apòstoli e dei santi, che invìtano a laudare il Signore sul sistro, e sul cembalo, sul flauto, e sulla cetra, non sono bastanti a dileguare gl'incandescenti fiotti d'ambiguità che la Décadence dannunziana ha riversato esultante su le nòbili immàgini rinascimentali del Pollajolo, del Perugino.

Ne la suprema decorazione dei versi francesi (oltre quattromila in orìgine) e col manto sonoro di Debussy D'Annunzio ha fuso con virtuosismo abbacinante Cristianèsimo e Paganèsimo, Piacere e Crudeltà, Eroismo e Sadismo, estenuata Violenza e rastremata Ascesi. Il Liberty giuoca col Sacro, profanàndolo: Narcisso èccita il proprio contrario, superbamente vagheggiando se stesso. Non soltanto v'è l'ammirazione per la Salome wildiana. Francesco Flora scriveva: "I termini della vicenda rendono contigui e non alterni l'eroismo superumano e il martirio cristiano, la bellezza dell'efebo e quella del santo trasumanato, l'ostia sacra e gli idoli, il femminile e il maschile, in una sublime forma di ambiguità, il piacere e la crudeltà fino al sangue". E ancora l'eminente crìtico rinveniva la parziale assoluzione nel nome della poesìa: "Opera corrottissima, D'Annunzio sa pure, a più riprese, riscattarsi in un piano di arte... Talvolta quel mondo lascivo e magico, martirio e paradiso dei sensi, ha una malinconia alata e sorvolante che è il tono della poesia".

Non v'ha dubbio che D'Annunzio con gesto mirabolante e quintessenziato, oltre l'esperienza della "Nave" lambisce il sacrilegio e trascolora "San Sebastiano" in Tammuz; e nella Camera màgica "i segni dello Zodiaco ruotano sotto l'abbagliante autorità della madre del Salvatore...". Sebastiano cammina su i carboni ardenti : "I miei piedi sono nudi per la rugiada del Signore"; la sua ànima, fatta con foglie di sàlice, intrise le sue vene "de musique et d'aurore", è il martirio nel vòrtice del supplizio: "Levatemi gambiere e cosciali, ginocchiere e solarette. Voglio essere a piedi e gambe nudi, àgile vendemmiatore pronto a pigiare i gràppoli rossi nel tino fumante! Danzerò alto, più alto della fiamma, sette volte più alto".

La fastosità delle immàgini, che mìrano ad un'eloquenza ove la ridondanza barocca lotta contro l'arcaismo dello stile, si sgrètola sotto il peso pulsante d'un'estenuata elegìa: la parola dannunziana cede alla propria tensione di voluttà, e deflagra in polverìo d'increata ipèrbole fantàstica. Ne la maravigliosa impotenza del testo si mòndano quelli che Pierre Boulez ha chiamato, con giudizio troppo altezzoso e distante, gli orpelli, le ampollosità e le ostentazioni verbali: la mistificazione lussuosa, in bilico tra l' "antiquariale" manierìstico delle figure rettòriche e l'alessandrinismo della loro confezione, percorre a ritroso la via della ricerca mìstica e coglie alla fine lo sbocco d'ogni estetismo: la calda disperazione: splendore tràgico, consolazione, sommo segreto di lacerante bellezza della Décadence, di cui fu D'Annunzio protagonista fra i precipui.


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