Mi piace Francis Poulenc, vivuto tra il 1899 ed il 1963 (p.Ch.n.). Musicista francese prettamente estivo.
Di lui mi piace l'affabilità leggiera, la freschezza del linguaggio sonoro, i modi stilìstici elusivi e divertiti, l'allure della fantasìa sìmile alla mannequin avvolta d'ilari veli che si rincorrono sulla passerella carezzando teorìe di sguardi ammirati.
La mùsica di Poulenc s'addice alla stagione calda: quando, assieme al bisogno di mutar d'àbiti, d'allentare la tensione intellettuale, di trascinare le forti emozioni sul bagnasciuga, d'attutire le pulsioni ètiche, estètiche e fin metafìsiche in una sorta d'amabil laissez-faire, avverto anche il desiderio di cose la cui imprescindìbile eleganza sia percorsa ed ondulata dal soffio d'una signorile futilità.
E al propòsito: l'èssere fùtili, come l'èssere vivi, ove non sia strascicato artifizio, è arte delle più sottili. Sta scritto nel "Sacro Libro di Nan Hua" del saggio Chuang Tzu che tutti gli uòmini conòscono l'utilità delle cose ùtili ma non l'utilità della futilità. E del resto, "una cosciente futilità è il più bel ornamento dell'uomo", rilevava una sera Alberto Savinio, pseudònimo di Andrea De Chirico, arguto crìtico musicale e teatrale, buon pittore, compositore dilettante, valente scenògrafo, saggista modesto e, in primis, fratello al celebèrrimo Giorgio.
Poulenc è uno che a mio sommesso parere ha sgravato la mùsica colta dagli ori, dai bronzi, dai trofei, dai medaglieri al valor supremo. L'ha presa per mano, nuda e cruda, e l'ha menata a divertirsi alle giostre: da prima su l'ebro ottovolante, a scompigliar di vento la capigliatura e di soprassalti le prospettive; quindi, nella buia gallerìa ove barbàgliano d'un tratto contraffatti e farseschi, in un guazzabuglio di note affastellate e sghilembe, i simulacri di Wagner, Debussy, Mozart, Stravinskij, etc....
E la mùsica ha riso di cuore a quella vista, a quel fantasmagòrico cùmulo di dotti ridotti a materia di gaudio scherzoso. Forse ha riso come quasi mai le era avvenuto. E s'è sentita un'altra, essa, più flessuosa e lùdica, più serenata e soffice, più umana e dotata. Di certo più monella ed immanente, pronta ora a dar l'assenso a deliziose canzoni, a frequentare il café-chantant, a cospàrgersi di jazz, in somma, a far comunella colle genti lievi, per le quali i suoni non sono sìllogi esoteriche, ma monili d'aria frizzante, bolle colorate, ricami dell'inesprimìbile, profumi di chissà quali leccornìe (acquattate mica troppo distanti da casa)....
Mi piace questo novecentesco musicista estivo.
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