I "Carmina Burana", composti dal tudesco Carl Orff nel 1937, sono un'opera di falso e pèssimo antiquariato musicale. Già Nietzsche aveva messo in guardia: "Che la mùsica non divenga un'arte della menzogna" (cfr. "Der Fall Wagner"). E si sa infatti come nulla più della mùsica possa divenire oggetto d'ambiguità. Il linguaggio dei suoni non è pedestre immàgine della realtà, ma, con assai più rischio, specchio del tempo - ciò che i tedeschi definiscono "Spiegel der Zeit" - in cui quella specìfica realtà stòrica, sociale e spirituale agisce e dòmina.
A considerare i "Carmina Burana" d'un sùbito si comprende che la natura profonda, l'autèntico contenuto, il messaggio verace di questa composizione non sono uno spaccato della civiltà alto-medievale tudesca, bensì l'"inferno" tudesco degli anni Trenta del sècolo ventèsimo, allorquando l'òpera di Orff venne alla luce. Nelle intenzioni e nella forma, i "Carmina Burana, canti profani per soli e coro con accompagnamento di strumenti e danza" vogliono riandare ai testi paganeggianti tardolatini, tùdeschi e occitani (raccolti nel Codex Latinus 4660) dei clèrici vagantes e delle loro "Kontrafakturen". Sulla scorta di un astuto miscuglio linguìstico, addobbato da una mùsica brutale e all'apparenza arcàica, compiaciuta fino all'estremo lìmite di se stessa, ove l'alta lezione stravinskijana, màssime sotto il profilo rìtmico, vi incombe depauperata con sfacciatàggine scandalosa.
I "Carmina Burana" additano una concezione cìnica dell'esistenza, la quale s'appalesa soggiogata dalle forze dell'irrazionalità, dalla glorificazione dell'irresponsàbile Alea, dalla concupiscenza dell'Eros inteso come postrema sponda della nàusea e delle voràgini esistenziali. Cupe esultanze da taverna, dionisismo contraffatto, lancinanti brìvidi d'apocalissi, occulte dannazioni: in un'atmosfera di fantasmagorìe i cui barbagli festanti si rovèsciano in ghigni sulfurei. Qui sta la menzogna racchiusa in questa mùsica.
Immediatamente s'avverte in essa un senso di malsanìa per i vapori acri, per la spiritualità infetta che l'imprègnano. La "freschezza" sonora dei "Carmina" si svela una finzione; si scorge montare per contro un requiem dissacrato e blasfemo; si intuisce che non è affatto il Medio Evo a configurarsi in un macabra kermesse; che non è gagliardo primitivismo e baldanza carnale quella corsa al disfacimento dell'ethos; che non è giuoco d'ironìa e di disinganno quella violenza brutalìssima del colore e del ritmo. Il telo si solleva ed ecco porsi a fronte la "traduzione" sonora dell'allucinata esaltazione e dell'ossessività del regime instaurato in Germania nel 1933: si disoccùltano i baccanali delle orìgini del Terzo Reich e del suo tòrbido dinamismo; il tono apologètico e profètico, l'aggressività di un acuminato delirio che, al pari dei "Carmina", ambisce a ricollegarsi ai miti del Sacro Romano Impero.
Quando in principio e al compimento dell'òpera il Coro tumultua su un ritmo martellante, osannato dall'immane clangore delle percussioni che squarciano il plumbeo orizzonte, è dato scòrgere d'accosto il travolgimento della Repùbblica di Weimar, nel mentre quelle fiammate rituali si fòndono a quelle del Reichstag. Il "primitivismo" rìtmico, melòdico e armònico di Orff scolpisce e sanziona il crollo della Ragione che darà sinistra stanza all'epopea dell'istinto bestiale. Il senso di rarefazione sulla superficie di questa mùsica è il volto devastato e diserto dello spìrito impazzito.
Stato di sovreccitata funebrità e d'ineluttàbile precipizio.
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