sabato 13 ottobre 2012

X) Ravel, maestro di squisitezze

Maurice Ravel, gran maestro di squisitezze, concepisce la mùsica come officiatura estètica di sottili blandizie, come acuto artifizio di sensazioni rare, come fantasìa di giuochi rabescati, come pittura di nuances. La sua mùsica aborrisce la violenza plebea delle emozioni, il chiasso del pathos invadente,  l'insulsa confessione degli accrocchi e dei gorghi interiori, la disperàggine incontrollata, come lo sconcio rimbombo delle felicità idiote. Nulla è preziosamente ricercato quanto la "semplicità" di Ravel, ma nulla è trasparente e dòcile e mitigato quanto il suo anelare, che basta un nulla a turbare, disciògliere, a far vanire nel più etereo de' silenzi. La sua Musa lieve paventa la realtà quotidiana e adora le inviolàbili magìe del sogno; veste l'esilità del proprio corpo con il pulvìscolo dei crepùscoli e delle aurore, e si ritrae smarrita dai meriggi scostumati che la sfanno. Ha in odio la Natura, la di lei calcolata imperfezione, e predilige invece la perfetta valentìa dell'infingimento, sia esso opera dell'intelletto rastremato o dei sensi. Ad interrogarla, la Musa di Ravel, non dà risposte ma lenti sorrisi innamorativi, e più sovente melanconìe estàtiche. S'aggrazzia ed involge d'antichezze antiquarie come di un pàllido velo di cipria; si protende nelle stagioni future con splèndide ritenutezze di castimonia; ma dùbita assai del presente in ragione della sguarnita immediatezza e petulanza d'ogni presente...
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La Valse.
Un soffio di beato sperdimento, di deliquiosa ebrietà invade l'ànima al molle rigirìo dell'orchestra. "La Valse" gèrmina da un impercettìbile fruscìo dei contrabbassi onde affiorare, ondulare, espàndersi per contagio agli altri strumenti, come se nelle ore antelucane emergesse a poco a poco dall'orizzonte una sorta di figurazione enimmàtica, e a poco a poco si definisse e rischiarasse in un trionfo: che infine signoreggierà l'intero campo del cielo: esso pure rapito alla danza, al valzer del cosmo: al suo universale trabocco...
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Bolero.
Un secco rullo dei tamburi. Un rullo desèrtico e dormioso, e però con l'ostinazione di un paradosso e l'implacabilità di una follìa. L'orchestra tace e s'appronta: obbedienti al ritmo, i musicisti s'incùrvano sui propri strumenti in attesa dell'evento madornale: è il Bolero, le cui avvisaglie mandano barbagli spasmòdici. Il pubblico si rannicchia nelle poltrone d'un rosso che scotta, non più sfioràndosi l'un l'altro ma ciascuno a sé, nell'ansietà del cògnito (agg.) futuro (sost.) che gli toccherà di lì a poco: a poco a poco. Aleggia un'aura di fantasmagòrica cospirazione mentre torme di pulvìscoli alchèmici vanno calamitàndosi e raggrumàndosi alla costituzione d'un immane fantasma di danza...

 Primo ad entrare nella danza sul rullo già piccante dei tamburi è il flauto donde si snoda giòvane e òndula il primo brusìo di voluttà. Come Ida Rubinstein, divina danseuse ritta sul tàvolo di un'osterìa affumicata fra le vampe dell'ardore maschile che la ghermìvano al suo Bolero in fieri, così la piana della compàgine sinfoniale prende a vibrare, flèttersi e inarcarsi quale onda oceànica invitata dalla rosea mollezza del vento. I tamburi s'espàndono tra il pùbblico ormai magato, si moltìplicano, si centùplicano all'avvento progressivo delle voci strumentali che flùttuano sinuose d'ebrietà, dimèntiche nello sperdimento della smagliante eufonìa. Voilà la kermesse vieppiù saliente: il pùbblico febbricoso, dalle gote arroventate, vibra all'irruzione degli sciami d'arpe e violini, degli esèrciti di percussioni e ottoni, che nel crescendo della vertìgine corale metamòrfosano la sensualità della danza in un'orgia coribàntica... Il Bolero frèmita. E' d'un'enormezza paventevole, incoercìbile massa sonora in brace, rullo mastodòntico che disìntegra l'immàgine della realtà, trèmola sul mondo come l'accecato ciclope tonitruante sull'acme rupestre....

 Le genti in ascolto rabbrividiscono: ormai sono affatto affatturate, a tutto disposte come non mai.

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