C'era una volta Darmstadt, amena cittadina tudesca nei pressi di Francoforte sul Meno. Fecero storia, e scàndalo, i suoi "Corsi estivi musicali ("Ferienkurse fuer internationale Neue Musik"), di cui èrano pontèfici màssimi compositori come Karlheinz Stockhausen, Johan Cage, Mauricio Kagel, Sylvano Bussotti, Olivier Messiaen, Luigi Nono, Luciano Berio, Gyorgy Ligeti: allora, negli anni Cinquanta, giòvini contestatori e dissacratori. Ed èrano affatto persuasi, loro, che il mondo, compreso quello dei suoni, fosse assoggettàbile alle utopìe per via rivoluzionaria. Darmstadt assurse per circa un quindicennio, tra il 1950 al 1965, a "tempio" ove la mùsica del passato pròssimo, da Wagner a Schoenberg, veniva inesorabilmente "smascherata" e dichiarata morta. Parola d'òrdine era "Sia fatta tabula rasa". Erano giòvini a Darmstadt, e perciò intransigenti e dogmàtici.
Gli è che questi musicisti, pur valentissimi, molti dei quali noverati dipoi fra i grandi del Novecento (a torto, a ragione?), si credèttero che l'arte potesse èsser assimilate al concetto illuminìstico di Progresso, o ad un ragionamento o sillogismo onde, poste alcune premesse, dovèssero di necessità discèndere alcune conseguenze. La premessa era che la sintassi dodecafònica, ancora legata alla matrice espressionista di "papà" Schoenberg, risultava irrimediabilmente esaurita: l'aveva sentenziato anche Pierre Boulez in un cèlebre artìcolo del 1952. La conseguenza: occorreva affidarsi all'insegnamento di uno tra i "figli" di Schoenberg, Anton Webern (l'altro era Alban Berg), che il linguaggio paterno aveva metamorfosato con lògica stringente in una sorta di pulvìscoli, di nùclei atòmici, da riordinarsi mediante un ferreo còdice d'impianto costruttivìstico, al cui interno l'espressività, il sentimento, il cuore (fetente, oscenìssima parola) èrano banditi.
La monarchìa assoluta di Darmstadt legiferava: "Ora la mùsica o è avanguardia o non è". Dirà anni appresso l'argentino Kagel che per principio a Darmstadt era affermato che il livellamento gerarchico dei dòdici suoni assumeva un significato polìtico: era un fatto di democrazìa dopo gli sconvolgimenti europei generati dalla dittatura nazi-fascista e dalla guerra. "Sottises", non molto dissìmili dalle asserzioni dei musicòlogi di fede nazista per i quali Beethoven era Beethoven perché tudesco, e il degenerato Schoenberg era tale perché ebreo.
Un novello sacro furore turbinò sui "Ferienkurse" all'arrivo dello statunitense John Cage e del teutonico Stockhausen. Momenti d'audace pionierismo, d'idoleggiamento iconoclàstico, che fecero indietreggiare lo stesso Theodor Wiesengrund Adorno, teòrico supremo della Neue Musik. Si discuteva d'opere commesse al Caso, di pura grafìa, d'interpretazione lasciata aperta dall'autore all'esecutore... E quanto più il pubblico extra moenia rimaneva esterrefatto, e si scandalizzava per la rabida provocazione di quella mùsica larvale, tanto più i darmstadttiani, chiusi in una turris eburnea, si stropicciavano gioiosi le mani per l'intrepidezza posta in campo, per la propria "verità" estètica risolta sul piano teòrico nella radicale negazione di qualsivoglia estètica.
Dall'iperrazionalismo all'irrazionalismo tout-court il passo era breve. Bussava alla porta la mùsica del silenzio. Fu Cage a (s)comporre quella "Sonata in tre movimenti per pianoforte" che imponeva all'intèrprete di sollevare e riabbassare il coperchio dello strumento rispettivamente all'inizio ed alla fine di ogni tempo, senza mai suonare una nota. E per imprimere un suggestivo paràmetro rìtmico al silenzio il compositore americano scrisse un pezzo consistente nel battere colpi di gong ad intervalli di tempo regolari per un lasso di tempo imprecisato. Accadde a New York che l'esecutore neòfita prese a battere il pomeriggio e non cessò che la mattina successiva...
Ma a Darmstadt l'Avanguardia sapeva provocare anche in altre trastullèvoli maniere. Mettiamo: poggiare sul pianoforte cubetti di legno, l'uno sopra l'altro, sino a che la torre non cadesse sulle corde verisimilmente suscitando nell'ascoltatore trasalimento non disgiunto da angoscia. Bussotti fu una sera l'interprete del "Concerto per solista e pubblico" di Stockhausen: il solista poteva impiegare un qualunque strumento, mentre il pubblico partecipava all'esecuzione dell'òpera appalesando le proprie schiette reazioni di fronte all'imprevedìbile performance del solista suddetto. Nàrrasi che il Bussotti seminascosto sul palcoscenico si cambiò i pantaloni, apparendo sfolgorante in velluto crèmisi. Tramàndasi che la reazione della platea fu intensa...
Nel secolo dècimo ottavo aveva notato il commendèvole scienziato svedese Carl von Linné che "natura non facit saltus". Nel caso di Darmstadt il principio stava a significare quanto fosse improbàbile cimento recìdere il cordone ombelicale con la Tradizione.
martedì 16 ottobre 2012
XXXIV) Carmen
Non sempre c'ha ragione Verlaine quando canta che "La chair est sainte! Il faut qu'on la vénère". Prendiamo ad esempio Carmen.
Carmen ha invaso e conquiso il mondo. Dìcesi che sia stata femminista ante litteram, e di quelle a tutto tondo: senza ubbìe o scrùpoli, anzi con ghiotto scandalo, come un fiotto di fatale parfum. E il mondo, almeno la metà, è oggi delle femministe: buon pro gli faccia. A trattare di questa corrusca "signorina" di fuoco - che mai volle passar per "signora" - si sono succedute esimie voci di letterati, musicisti, sociòlogi, filòsofi, pittori, crìtici a dir la loro che, comunque detta, è sempre stata d'ammirazione commovente ed eccitata. Protòtipo di vamp rubella e libertaria, non già alla Marylin, affatto coccolona, o delle sue colleghe affini, esuberanti mangiatrici d'uòmini e però in qualche modo timorate e saziabili, e in ogni caso addomesticate "ab origine" al sistema maschilista che le ha create per propria congènita necessità e lùdico sadismo. No. Carmen è sanza compromessi, d'un volto solo e monocromàtico, d'un'ingordigia sorda e monotemàtica. Ma, dopo aver ben ponderato, non è da esclùdere che tante lodi al di lei indirizzo sgòrghino da una propensione fanàtica, da un giudizio impulsivo e mìope.
Carmen non è donna pensante bensì mero èssere agente, mosso da brame e arsioni viscerali che col pensiero e la libertà - ch'è figlia al pensiero - hanno poco o punto in comune. Anzi, il pensiero mai ricevette, se possìbile, più tosta batosta dall'agire donnesco. La "signorina" svola di maschio in maschio, frascheggiando annebbiata e avida come quelle bottiglie truccate che per quanto t'imbufalisci ad empire sono sempre vuote. Carmen, di pensiero vuota, lo è d'ogni altra cosa eccetto che della sua mulàggine sensuale. Dispregia con orgoglio lavare piatti, spolverare la mobilia, còcere due ova al tegamino, ma, meschinetta, prigioniera del suo minùscolo orizzonte non sa fare altro che tinnire, trillare, sgallettare smancerosa, sùccuba d'una fràgil foia che, forse, è pur finta nella sostanza.
Non già, dunque, la sigaraia feriale come fiero ideale d'emancipazione del sesso dèbole dall'atàvica sottomissione al crudele sesso barbuto; e del resto, neppure terrìbile magalda licenziosa e dongiovannesca alla Lulu, bensì siloetta imbizzita, che si scalmana contro ciò di cui non è in grado neppure d'èssere pietosa vìttima. Come donna poi è una frana. E quando strilla acìdula a quel disperato babbione di Don José: "Fra noi tutto è finito", mente sapendo di mentire, poiché una lògica elementare le insegna che non si dà fine ove non ci sia stato cominciamento, a che lei è impotente per irrimediàbile difetto di costituzione (di cui peraltro non ha colpa).
Carmen ha invaso e conquiso il mondo. Dìcesi che sia stata femminista ante litteram, e di quelle a tutto tondo: senza ubbìe o scrùpoli, anzi con ghiotto scandalo, come un fiotto di fatale parfum. E il mondo, almeno la metà, è oggi delle femministe: buon pro gli faccia. A trattare di questa corrusca "signorina" di fuoco - che mai volle passar per "signora" - si sono succedute esimie voci di letterati, musicisti, sociòlogi, filòsofi, pittori, crìtici a dir la loro che, comunque detta, è sempre stata d'ammirazione commovente ed eccitata. Protòtipo di vamp rubella e libertaria, non già alla Marylin, affatto coccolona, o delle sue colleghe affini, esuberanti mangiatrici d'uòmini e però in qualche modo timorate e saziabili, e in ogni caso addomesticate "ab origine" al sistema maschilista che le ha create per propria congènita necessità e lùdico sadismo. No. Carmen è sanza compromessi, d'un volto solo e monocromàtico, d'un'ingordigia sorda e monotemàtica. Ma, dopo aver ben ponderato, non è da esclùdere che tante lodi al di lei indirizzo sgòrghino da una propensione fanàtica, da un giudizio impulsivo e mìope.
Carmen non è donna pensante bensì mero èssere agente, mosso da brame e arsioni viscerali che col pensiero e la libertà - ch'è figlia al pensiero - hanno poco o punto in comune. Anzi, il pensiero mai ricevette, se possìbile, più tosta batosta dall'agire donnesco. La "signorina" svola di maschio in maschio, frascheggiando annebbiata e avida come quelle bottiglie truccate che per quanto t'imbufalisci ad empire sono sempre vuote. Carmen, di pensiero vuota, lo è d'ogni altra cosa eccetto che della sua mulàggine sensuale. Dispregia con orgoglio lavare piatti, spolverare la mobilia, còcere due ova al tegamino, ma, meschinetta, prigioniera del suo minùscolo orizzonte non sa fare altro che tinnire, trillare, sgallettare smancerosa, sùccuba d'una fràgil foia che, forse, è pur finta nella sostanza.
Non già, dunque, la sigaraia feriale come fiero ideale d'emancipazione del sesso dèbole dall'atàvica sottomissione al crudele sesso barbuto; e del resto, neppure terrìbile magalda licenziosa e dongiovannesca alla Lulu, bensì siloetta imbizzita, che si scalmana contro ciò di cui non è in grado neppure d'èssere pietosa vìttima. Come donna poi è una frana. E quando strilla acìdula a quel disperato babbione di Don José: "Fra noi tutto è finito", mente sapendo di mentire, poiché una lògica elementare le insegna che non si dà fine ove non ci sia stato cominciamento, a che lei è impotente per irrimediàbile difetto di costituzione (di cui peraltro non ha colpa).
XXXIII) Abbado e Muti
Claudio Abbado e Riccardo Muti: due musicisti di grande civiltà, permeati d'una forte cultura umanìstica e di un eccellente istinto direttoriale. Dotati di quell'impalpàbile "carisma" che vale di presupposto per chiunque ambisca salire sul podio con le carte in règola. Ma non v'ha dubbio che divèrgono le loro personalità artistiche. C'è nel Muti musicista una fucina di gioia e d'intraprendenza, un'ànima tumultuante di suoni, una kermesse di poètica musicale che il maestro meridionale, a prescìndere dai crudi dati anagràfici, lo chiameremmo ancora "il giovane Muti". A differenza di Abbado, risiede in Muti fin dalle origini una sòrta di nicciana inclinazione alla solarità mediterranea, al paesaggio vìvido e acceso, ai frutti di una terra di verginale e spudorata bellezza meridionale: musica, canto e salubrità. Le vampate di Verdi non sono mai tanto rapinose come quando a scolpirle è Muti. E però ciò che più vale in lui è la piena consapevolezza di questa ispirazione pànica: tale da indurlo allo stretto rigore di un atteggiamento critico idoneo a governare e controllare l'emporio dei suoi anèliti, delle sue formidabili bramosìe. A tal propòsito il suo Mozart appare d'affascinante sfaccettatura e levità poètica intrise di melanconìa: come il sole che tramonti nel verdeggiare dei campi estivi.
La tempra artìstica, musicale e direttoriale di Claudio Abbado si diversìfica assai, fino a raggiùngere talvolta una maniera antitètica, da quella di Muti. Se Muti è un Corneille, Abbado è un Racine. Se il primo è un romantico, il secondo è un razionalista illuminista. Se Muti è un poeta lìrico, Abbado è un architetto utòpico del Settecento. Per Muti la mùsica è fondamentalmente ispirazione, un "voler èssere"; per Abbado il linguaggio dei suoni è un "dover èssere", e poggia su un òrdine indefettìbile. Il pathos Muti lo trae dalla spontanea effusione e svolgimento del testo; Abbado lo costruisce e modella sulle motivazioni di òrdine lògico-formale che lo stesso testo comprende. Per Abbado la bellezza tanto più rifulge e provoca l'ascoltatore quanto più è conseguenza necessaria e tetràgona di un impegno raziocinante e di un èsito intellettuale. Aleggia uno spìrito di matematica nel canto abbadiano, tant'è che il suo Rossini risulta insuperato, ed è la ragione più sottile del valore del maestro milanese. Del quale non stupisce dunque la predilezione, manifestata in varie occasioni, ad affrontare quelle òpere sovente dure e sofisticate dei compositori novecenteschi e contemporanei che di norma Muti rifugge d'istinto. Sotto tale profilo Abbado sembra più attuale del "rivale", più interessato alle esperienze della modernità: la sua orchestra più lùcida e affilata, il suono più trasparente e virtuosistico. Il suo Mahler è straordinario per acutezza di lettura e tràgica maestosità...
Non è un caso se Muti è adorato soprattutto dai viennesi, umanità esuberante; Abbado dai tedeschi, produttori indefessi di sistemi e cultori sopraffini della pura sistematicità.
XXXII) Il "Bello"
E' più che evidente che non è possìbile giudicare "belli" un film, una commedia, un quadro, un romanzo, una musica, un lago, un'aurora, et cetera, se non si sa che cosa sia il "Bello", così com'è impossìbile affermare che una minestra è troppo salata se non si sa che cosa sia il sale, ed un uomo uno "stronzo" se non si sa che cosa sia la "stronzaggine". In effetti, "arduo cimento è (stabilire) che cosa sia il Bello", avverte Platone a conclusione dell'"Ippia maggiore". Ed è trascorso più di un sècolo da che la declinante cultura occidentale, nella fattispecie l'Estètica, ha smarrito un qualsivoglia concetto del "Bello".
Nell'antica Grecia, se il pensiero estètico della Scuola pitagòrica fondava il "Bello" sul concetto di "armonìa", il citato Platone condannava l'arte nel Dialogo della "Repubblica" ma l'esaltava nel "Cratilo" e vieppiù nelle "Leggi". Al di là del contraddittorio bilicare del giudizio, il filòsofo idealista faceva riferimento alla "mìmesi", o imitazione, della natura: "L'artista non crea ma si lìmita ad imitare, sicché l'òpera d'arte è azzeccata nella misura del suo èsito mimètico". In altri tèrmini, un'òpera sarebbe tanto più "bella" quanto più cogliesse e rappresentasse i segreti e le superfici della realtà/natura. Più radicale Plutarco che sulla scia platònica metafisicizzava il concetto di "mimesis" nell'asserzione che il "Bello" è tale non perché "bello" ma perché "ìmita" e "somiglia". Per l'estètica aristotèlica il "Bello" si poneva in rapporto alla capacità catàrtica dell'òpera stessa, la quale era bella se imitava non già le cose accadute ma le cose quali sarèbbero potute accadere: donde si vede il rilevante ampliamento d'orizzonte compiuto dallo Stagirita che siffattamente contempla la possibilità d'intervento della fantasìa nella dimensione artìstica.
Nel primo sècolo p.Ch.n. con accenti quasi romàntici l'Anonimo del "Sublime" additava il "Bello" nell'èstasi conseguita attraverso la concitazione e la passionalità; Plotino nell'ideale di cifra trascendentale e mìstica, cui il razionalismo aristotèlico di Tommaso d'Aquino attribuiva notoriamente tre requisiti: "integritas", "proportio" e "claritas". Nell'età rinascimentale il "Bello" era ritenuto strettamente connesso ad un progetto e ad una finalità pedagògici dell'òpera d'arte, intanto che nella posteriore època cartesiana e nella civiltà dell'Illuminismo l'arte era considerata tale in quanto la sua sfera fantàstica era fondamentalmente determinata e presieduta dall'attività ordinatrice della ragione: dall'ésprit de géométrie, e sono da valutare al propòsito le teorìe estètiche da Bacone a Boileau, da Pascal a Leibniz, da Baumgarten a Vico, etc...
La più clamorosa svolta del concetto di "Bello" fu impressa dalla civiltà romantica, nella quale il pensiero idealìstico non solo ridusse la filosofìa ad "ancilla" dell'arte (Schelling), capovolgendo in tal modo l'estètica razionalìstica dei sècoli dècimo sèttimo e dècimo ottavo, ma elevò l'òpera d'arte ad acme della vita spirituale (F.H.Jacobi, Schelling, F.Schleiermacher), o, più ancora, ad apparenza fìsica del Logos: ad espressione sensìbile dell'Assoluto (Hegel). Di poi in Italia Benedetto Croce specificherà che il "Bello" inerisce all'intuizione del Sentimento; Giovanni Gentile, al Sentimento stesso.... Con il crepùscolo dell'Idealismo e dei suoi affaticati epìgoni cade l'ultima definizione sistematica dell'Estètica e, dunque, del "Bello", dalla cui rifondazione, come s'accennava all'inizio, il miserando Novecento è rifuggito con una sorta di rabbioso "cupio dissolvi"...
A partire dalla metà del sècolo ventunesimo il "Bello" è stato registrato come realtà superflua, se non proprio indecente o aliena dal caràttere della poesìa. Non restava che sottoscrivere l'elementare principio formulato da Jacques Maritain: "Pulchrum est id quod placet", ovvero "è bello ciò che piace". Così il "Bello" precipitava in una pseudo categorìa assolutamente soggettiva che si rifrangeva empiricamente in infinite, disparatìssime e contraddittorie definizioni. Ad elìdersi l'une coll'altre.
XXXI) La compostezza
I grandi eventi dell'emozione, i sentimenti profondi gòdono sempre di una profonda "compostezza", che li rende inamovìbili e inchiodati all'èterno sotto l'accavallarsi affannoso degli accadimenti, delle sensibilità, delle mode, dei gusti, ossia de' tempi. Non è questa la compostezza propria dell'aridità che suole celare dietro parvenze di decoro e di politezza un sostanziale vuoto di contenuti; né è la "compostezza" che si estenua sino a ad esaurirsi nel compiacimento celebrativo della propria bella forma, lasciàndosi dietro un acre solco d'insoddisfazione; né è quella "compostezza" che si studia d'arginare e mascherare alla meglio il tumultuare del magma sensoriale, vorticosa aspirazione ma non anèlito d'arte che ascenda e si diffonda in compiuta luce di poesìa.
La "compostezza" cui ci riferiamo è il resultato dell'armoniosa consapevolezza del possesso di un bene totale e inalienabile, che nutre la propria felicità, e dunque la propria bellezza (che sono analoga cosa), con la somma e la risoluzione delle tensioni - oltreché indistintamente emotive - intellettuali, civili e morali dell'èssere umano. E' la "compostezza" sovrana dell'uomo e dell'artista che riconosce se stesso nella coscienza di un fine conseguito da cui è esaltato e insieme pacificato con il mondo esterno a sé. E' la "compostezza" che ha idealmente arrestato il confuso fluire della Storia per estrarre e appalesare l'incorrutibilità e la perennità dei frammenti di cui la Storia è vertiginosamente costituita.
La "compostezza" nell'arte è il Classicismo. Nella sfera dell'interpretazione artìstica essa è l'immedesimazione con l'òpera d'arte, còlta nell'equilibrio fra la sua immanenza stòrica e la sua "intenzionalità" a valore assoluto. E' la cultura dell'intèrprete che prende possesso del dato poetico, circoscritto all'època che l'ha prodotto, e lo eleva ad una dimensione astorica ed extra temporale per rènderlo pensiero, o Logos, cristallizzato nell'infinito. Condotta dall'intèrprete ad una trascendenza di pace, l'òpera d'arte non appare più motto esteriore, eccedenza della forma e/o irrequietezza di contenuto, eccesso del sentimento o della ragione, bensì mònade aurorale che riflette l'immàgine dell'armonìa còsmica, il segno dell'illimitata potenza dello spìrito che quell'armonìa ha saputo "immaginare" a proprio desiderio e porre a propria meta finale. La "compostezza" dell'intèrprete fa sì che ogni tentativo di edonismo e di sensualismo sonori confessi amaramente il suo lìmite e la sua caducità; ma pure che il gretto filologismo s'infranga nel corso della superiore ascesa al respiro poetico.
L'intrprete autèntico non sollècita volgari maraviglie, non alletta con fàcili effetti, non infiamma con un virtuosismo tècnico fine a se stesso, non èccita gli istinti viscerali, non gratifica il cattivo gusto di chi gli è di fronte vìttima dell'ignoranza o della malafede dell'esecuzione. L'interprete di valore sa che l'arte non è foraggio al mondo, ma sottile e progressiva gioia dell'ànima.
lunedì 15 ottobre 2012
XXX) L'inferno dei Carmina Burana
I "Carmina Burana", composti dal tudesco Carl Orff nel 1937, sono un'opera di falso e pèssimo antiquariato musicale. Già Nietzsche aveva messo in guardia: "Che la mùsica non divenga un'arte della menzogna" (cfr. "Der Fall Wagner"). E si sa infatti come nulla più della mùsica possa divenire oggetto d'ambiguità. Il linguaggio dei suoni non è pedestre immàgine della realtà, ma, con assai più rischio, specchio del tempo - ciò che i tedeschi definiscono "Spiegel der Zeit" - in cui quella specìfica realtà stòrica, sociale e spirituale agisce e dòmina.
A considerare i "Carmina Burana" d'un sùbito si comprende che la natura profonda, l'autèntico contenuto, il messaggio verace di questa composizione non sono uno spaccato della civiltà alto-medievale tudesca, bensì l'"inferno" tudesco degli anni Trenta del sècolo ventèsimo, allorquando l'òpera di Orff venne alla luce. Nelle intenzioni e nella forma, i "Carmina Burana, canti profani per soli e coro con accompagnamento di strumenti e danza" vogliono riandare ai testi paganeggianti tardolatini, tùdeschi e occitani (raccolti nel Codex Latinus 4660) dei clèrici vagantes e delle loro "Kontrafakturen". Sulla scorta di un astuto miscuglio linguìstico, addobbato da una mùsica brutale e all'apparenza arcàica, compiaciuta fino all'estremo lìmite di se stessa, ove l'alta lezione stravinskijana, màssime sotto il profilo rìtmico, vi incombe depauperata con sfacciatàggine scandalosa.
I "Carmina Burana" additano una concezione cìnica dell'esistenza, la quale s'appalesa soggiogata dalle forze dell'irrazionalità, dalla glorificazione dell'irresponsàbile Alea, dalla concupiscenza dell'Eros inteso come postrema sponda della nàusea e delle voràgini esistenziali. Cupe esultanze da taverna, dionisismo contraffatto, lancinanti brìvidi d'apocalissi, occulte dannazioni: in un'atmosfera di fantasmagorìe i cui barbagli festanti si rovèsciano in ghigni sulfurei. Qui sta la menzogna racchiusa in questa mùsica.
Immediatamente s'avverte in essa un senso di malsanìa per i vapori acri, per la spiritualità infetta che l'imprègnano. La "freschezza" sonora dei "Carmina" si svela una finzione; si scorge montare per contro un requiem dissacrato e blasfemo; si intuisce che non è affatto il Medio Evo a configurarsi in un macabra kermesse; che non è gagliardo primitivismo e baldanza carnale quella corsa al disfacimento dell'ethos; che non è giuoco d'ironìa e di disinganno quella violenza brutalìssima del colore e del ritmo. Il telo si solleva ed ecco porsi a fronte la "traduzione" sonora dell'allucinata esaltazione e dell'ossessività del regime instaurato in Germania nel 1933: si disoccùltano i baccanali delle orìgini del Terzo Reich e del suo tòrbido dinamismo; il tono apologètico e profètico, l'aggressività di un acuminato delirio che, al pari dei "Carmina", ambisce a ricollegarsi ai miti del Sacro Romano Impero.
Quando in principio e al compimento dell'òpera il Coro tumultua su un ritmo martellante, osannato dall'immane clangore delle percussioni che squarciano il plumbeo orizzonte, è dato scòrgere d'accosto il travolgimento della Repùbblica di Weimar, nel mentre quelle fiammate rituali si fòndono a quelle del Reichstag. Il "primitivismo" rìtmico, melòdico e armònico di Orff scolpisce e sanziona il crollo della Ragione che darà sinistra stanza all'epopea dell'istinto bestiale. Il senso di rarefazione sulla superficie di questa mùsica è il volto devastato e diserto dello spìrito impazzito.
Stato di sovreccitata funebrità e d'ineluttàbile precipizio.
A considerare i "Carmina Burana" d'un sùbito si comprende che la natura profonda, l'autèntico contenuto, il messaggio verace di questa composizione non sono uno spaccato della civiltà alto-medievale tudesca, bensì l'"inferno" tudesco degli anni Trenta del sècolo ventèsimo, allorquando l'òpera di Orff venne alla luce. Nelle intenzioni e nella forma, i "Carmina Burana, canti profani per soli e coro con accompagnamento di strumenti e danza" vogliono riandare ai testi paganeggianti tardolatini, tùdeschi e occitani (raccolti nel Codex Latinus 4660) dei clèrici vagantes e delle loro "Kontrafakturen". Sulla scorta di un astuto miscuglio linguìstico, addobbato da una mùsica brutale e all'apparenza arcàica, compiaciuta fino all'estremo lìmite di se stessa, ove l'alta lezione stravinskijana, màssime sotto il profilo rìtmico, vi incombe depauperata con sfacciatàggine scandalosa.
I "Carmina Burana" additano una concezione cìnica dell'esistenza, la quale s'appalesa soggiogata dalle forze dell'irrazionalità, dalla glorificazione dell'irresponsàbile Alea, dalla concupiscenza dell'Eros inteso come postrema sponda della nàusea e delle voràgini esistenziali. Cupe esultanze da taverna, dionisismo contraffatto, lancinanti brìvidi d'apocalissi, occulte dannazioni: in un'atmosfera di fantasmagorìe i cui barbagli festanti si rovèsciano in ghigni sulfurei. Qui sta la menzogna racchiusa in questa mùsica.
Immediatamente s'avverte in essa un senso di malsanìa per i vapori acri, per la spiritualità infetta che l'imprègnano. La "freschezza" sonora dei "Carmina" si svela una finzione; si scorge montare per contro un requiem dissacrato e blasfemo; si intuisce che non è affatto il Medio Evo a configurarsi in un macabra kermesse; che non è gagliardo primitivismo e baldanza carnale quella corsa al disfacimento dell'ethos; che non è giuoco d'ironìa e di disinganno quella violenza brutalìssima del colore e del ritmo. Il telo si solleva ed ecco porsi a fronte la "traduzione" sonora dell'allucinata esaltazione e dell'ossessività del regime instaurato in Germania nel 1933: si disoccùltano i baccanali delle orìgini del Terzo Reich e del suo tòrbido dinamismo; il tono apologètico e profètico, l'aggressività di un acuminato delirio che, al pari dei "Carmina", ambisce a ricollegarsi ai miti del Sacro Romano Impero.
Quando in principio e al compimento dell'òpera il Coro tumultua su un ritmo martellante, osannato dall'immane clangore delle percussioni che squarciano il plumbeo orizzonte, è dato scòrgere d'accosto il travolgimento della Repùbblica di Weimar, nel mentre quelle fiammate rituali si fòndono a quelle del Reichstag. Il "primitivismo" rìtmico, melòdico e armònico di Orff scolpisce e sanziona il crollo della Ragione che darà sinistra stanza all'epopea dell'istinto bestiale. Il senso di rarefazione sulla superficie di questa mùsica è il volto devastato e diserto dello spìrito impazzito.
Stato di sovreccitata funebrità e d'ineluttàbile precipizio.
XXIX) Novecento adieu
Quasi fosse un sècolo arcaico, sprofondato ed avvolto in brumose e misteriose leggende, il Novecento musicale, eccezion fatta per una breve catena di vette (ad esempio Stravinskij, Prokof'ev, Alban Berg), è tutto dimenticato da se medesimo. Sembra che per una sorta di fatale maledizione ciò che è stato prodotto in questo tempo recente emetta una demònica sostanza che lo espunge dalla realtà del presente. In vero questo drammàtico fenòmeno, che non ha riscontro nelle altre èpoche della storia della mùsica d'arte occidentale, trova motivazione nel gusto e nel consumo musicale di massa, i quali sono venuti a trovarsi in rapporto con linguaggi che ribùttano con forza.
Il gusto del pùbblico si èsplica in un tempo che non è il suo. O, se si preferisce, è la mùsica del Novecento ad offrirsi ad un tempo - ad una civiltà, ad uno Spìrito - che non può o non sa accòglierla. A tutt'oggi il gusto e le inclinazioni di massa, gli abbandoni e le eccitazioni dell'ascolto, sono rimasti ancorati ai vecchi linguaggi tardoromàntici, mentre la mùsica novecentesca - s'intenda la più autèntica e sincera - è stata tesa ad un ventaglio di modi espressivi che s'invèrano nel "probàbile", nel "rischio", nell' "ipòtesi", o sia in un futuro indefinito. Il presente è il vuoto, è la scissione profonda tra produzione e fruizione, è l'epicedio che intona l'indifferenza nutrita dal fastidio. Tant'è che figure di compositori minori del Sei, Sette ed Ottocento, risùltano lusingate non soltanto dall'interesse, se non dal fervore, della musicologìa e della crìtica, ma anche da un'udienza generale vivace e percettiva: si pensi alla risonanza, negli ùltimi decenni del ventèsimo sècolo, suscitata dalle problemàtiche dell'esecuzione filològica connesse alle òpere dell'età barocca e preclàssica. Mentre rilevanti compositori che pur hanno segnato e caratterizzato la vita musicale della prima metà del Novecento sono da lunga pezza riposti nel silenzio: intruppati in un buio stambugio senza porte né finestre affinché l'ignoranza che si ha di loro non si trasformi in tedio.
Il gusto del pùbblico si èsplica in un tempo che non è il suo. O, se si preferisce, è la mùsica del Novecento ad offrirsi ad un tempo - ad una civiltà, ad uno Spìrito - che non può o non sa accòglierla. A tutt'oggi il gusto e le inclinazioni di massa, gli abbandoni e le eccitazioni dell'ascolto, sono rimasti ancorati ai vecchi linguaggi tardoromàntici, mentre la mùsica novecentesca - s'intenda la più autèntica e sincera - è stata tesa ad un ventaglio di modi espressivi che s'invèrano nel "probàbile", nel "rischio", nell' "ipòtesi", o sia in un futuro indefinito. Il presente è il vuoto, è la scissione profonda tra produzione e fruizione, è l'epicedio che intona l'indifferenza nutrita dal fastidio. Tant'è che figure di compositori minori del Sei, Sette ed Ottocento, risùltano lusingate non soltanto dall'interesse, se non dal fervore, della musicologìa e della crìtica, ma anche da un'udienza generale vivace e percettiva: si pensi alla risonanza, negli ùltimi decenni del ventèsimo sècolo, suscitata dalle problemàtiche dell'esecuzione filològica connesse alle òpere dell'età barocca e preclàssica. Mentre rilevanti compositori che pur hanno segnato e caratterizzato la vita musicale della prima metà del Novecento sono da lunga pezza riposti nel silenzio: intruppati in un buio stambugio senza porte né finestre affinché l'ignoranza che si ha di loro non si trasformi in tedio.
XXVIII) Andrés Segovia
Uomo retto, di saldi principi, senza grilli pel capo, Andrés Segovia aveva del contadinesco. Su tutti prediligeva Bach, che definiva l'Himalaia dei compositori.
Ciò che nell'Ottocento Chopin e Liszt sono stati per il pianoforte, e Paganini per il violino, nel Novecento Segovia è stato per la chitarra.
E' stato lui a trarre la chitarra da una sfera appartata e tìmida, o di mera caratterizzazione colorìstica, o di vilesco tratto folklorico, per elevarla al rango d'imponente voce espressiva.
E infatti disse una volta: "La mia più profonda soddisfazione non viene dalle ovazioni che mi sono tributate ma dalla consapevolezza d'aver dato alla chitarra il posto che essa merita nella gallerìa degli strumenti musicali",
Mentre altri interpreti, pur eccellentissimi, dèbbono qualcosa ai loro strumenti, egli non deve nulla alla chitarra, ma essa a lui tutto.
Negli ultimi anni di vita, pacioso e olimpico come un Goethe, sorridente sempre sotto spessi occhiali, arguto e lèpido nell'eloquio, il maestro spagnuolo se ne iva girando per il mondo con ritmi giudiziosi: a raccogliere i frutti di una fama madornale, da nessun altro artista vivente superata.
La sua chitarra in ùltimo non era neppur più una chitarra.
Aveva dita grandi e sòffici, che si distendevano e abbracciavano lo strumento con una teorìa di carezze. Toccava le corde con gesto minuto e però suscitava un'intensità sonora incomparabilmente effusa. E le note, pari ad un'immateriale cascata di lucori, fondàvano la loro perentorietà non già sulle mani ma su le arcane radici del sentimento.
Non gli piaceva punto la mùsica radicale novecentesca (salvo eccezioni) giudicata un guazzabuglio, ma aveva cultura e sensibilità per godere dell'arte del Novecento, amico di pittori, poeti, intellettuali e filòsofi. Palesava spiriti sottili, e talvolta grotteschi.
Odiava la chitarra elèttrica, ritenuta prostituzione dello strumento originale. Studiava un'ora e un quarto ogni giorno, prima e\o dopo i pasti.
Soffrì anche duramente: quando gli morì il figlio diciottenne. Ma era, in complesso, congruamente contento del vìvere. Così pregava Iddio: "Signor mio, non sono ancora degno della Tua Gloria: làsciami, dunque, ancora un po' quaggiù".
Quaggiù Segovia fu lasciato in vita novantatrè anni, e in òttima salute.
XXVII) Contra Nabucco
Le celebrazioni per il 150° anniversario dell'unità d'Italia sono state notoriamente rivestite delle note del "Nabucco" ("Nabucodonosor") di Giuseppe Verdi, diretto all'Opera di Roma da Riccardo Muti. Comprendiamo le ragioni della scelta sotto il profilo stòrico e dei contenuti patriòttici, ma a scanso d'equìvoci non si può non rammentare che questo melodramma del 1842 costituisce un cimento giovanile del compèositore bussetano. Giovanile e minore. I meglio lavori verdiani sono ancora assai rimoti nel tempo e per sostanza d'arte. E nulla vale, al fine d'una corretta valutazione estètica, che sia òpera fàcile e popolare; che sia stata assunta come formidàbile arma risorgimentale; che vanti una pàgina corale di forte effetto emotivo quale "Va, pensiero, sull'ali dorate": sola pagina che tenda a staccarsi dalla mediocrità delle altre.
"Nabucco" è frutto di un Verdi sommario nella scrittura sovente bandìstica; d'una magniloquenza tutta esteriore, talvolta rozza. D'altronde, esso è spia d'una marcata involuzione linguìstica rispetto all'arte di Bellini e di Donizetti, per tacere dell'assoluta purità già conseguita dal genio rossiniano. E Verdi componendo "Nabucco" guardava per certo al "Mosè" di Rossini ma lo faceva come lo può fare l'implume allievo a fronte dell'elisio maestro. Né a sostener "Nabucco" c'è il librettaccio di Temistocle Solera, risìbile per forma e contenuto, spoglio d'ìntime motivazioni e d'una sia pur rudimentale psicologìa. "Nabucco" è òpera di virulenza fònica, sistemata a colpi d'accetta; è un'arsione impudica non dissìmile da un'esaltata procacità donnesca. E' mùsica estremìstica, canto fazioso, suono illiberale e selvaggio. Se mai, il "fàscino" suo risiede in un orgoglioso "primitivismo", in un sapore selvàtico e acre, in una smania incontinente, in una polpa allo stato brado che non tanto addita la tragedia esistenziale del pòpolo ebraico quanto la ribellione, non di rado caòtica, d'una terra padana prima d'èsser sottomessa alla coltivazione sapiente e finalizzata. E manco è lècito affermare che sia questa una forma di "espressionismo", un "urlo interiore" ch'erompa da disperazione d'ànima o da tràgico esaurimento di linguaggio, come avverrà al principio del Novecento. Il Verdi di "Nabucco" è ansia di far molto avendo a disposizione strumenti soggettivi inadeguati al pretensioso cimento.
"Nabucco" è frutto di un Verdi sommario nella scrittura sovente bandìstica; d'una magniloquenza tutta esteriore, talvolta rozza. D'altronde, esso è spia d'una marcata involuzione linguìstica rispetto all'arte di Bellini e di Donizetti, per tacere dell'assoluta purità già conseguita dal genio rossiniano. E Verdi componendo "Nabucco" guardava per certo al "Mosè" di Rossini ma lo faceva come lo può fare l'implume allievo a fronte dell'elisio maestro. Né a sostener "Nabucco" c'è il librettaccio di Temistocle Solera, risìbile per forma e contenuto, spoglio d'ìntime motivazioni e d'una sia pur rudimentale psicologìa. "Nabucco" è òpera di virulenza fònica, sistemata a colpi d'accetta; è un'arsione impudica non dissìmile da un'esaltata procacità donnesca. E' mùsica estremìstica, canto fazioso, suono illiberale e selvaggio. Se mai, il "fàscino" suo risiede in un orgoglioso "primitivismo", in un sapore selvàtico e acre, in una smania incontinente, in una polpa allo stato brado che non tanto addita la tragedia esistenziale del pòpolo ebraico quanto la ribellione, non di rado caòtica, d'una terra padana prima d'èsser sottomessa alla coltivazione sapiente e finalizzata. E manco è lècito affermare che sia questa una forma di "espressionismo", un "urlo interiore" ch'erompa da disperazione d'ànima o da tràgico esaurimento di linguaggio, come avverrà al principio del Novecento. Il Verdi di "Nabucco" è ansia di far molto avendo a disposizione strumenti soggettivi inadeguati al pretensioso cimento.
XXVI) Il mostro
Al mio amàbile "lettore" Duccio Pafumi.
*
Dell'anno di NS 1936 è la "Quarta" di Dmitrij Shostakovic: sinfonìa turgida e ghiotta. Sì eccessiva, sì opima e ciclòpica da travolgere e spazzar via al suo irreprimìbile passare quanti dubbi, trèpidi tergiversari, fìsime esegètiche e delicatezze crìtiche le si oppòngano: per altro invano. Attenzione: i cachèttici, gli smunti, i macilenti - frolli & obliqui tutti - se ne mèttano d'un sùbito al riparo: ché occorre buona e robusta costituzione a fronteggiarla e domarla: nervi d'acciaro, mùscoli atleticìssimi, sangue gagliardo. Temerarietà contro temerarietà, smoderanza contro smoderanza. Che qui si va per picchi, sòrbole!...
Eccola, la "Sinfonìa in do minore op. 43", appalesarsi pasciuta e rubiconda come una paesana ottocentesca delle Fiandre, o della Bassa. Anzi no: èccola spanta e pulsante come una fantasmagòrica fèmmina felliniana che, impreveduta, aggalli enorme dal silenzio di una plaga diserta; e sotto un cielo plùmbeo rida, faccia ridicolezze, dileggi, sberleffi ed imbrogli, si dimeni clownescamente, i rossi capelli acciuffolati in plùrimi cernecchi, il volto smargiasso e bistrato, gaudiose le nari, le gran borse agli occhi bovini sedute sulle pèndule guance porporine, le labbra fremitanti esuste, le poppe immani e mollemente svolanti, la veste interrotta e bizzarra: a contenere, o aizzare vieppiù, la sarabanda del suo subisso carnale...
Le sòrgono dentro e fuorièscono alla bitorzoluta superficie moltitùdini guerresche di violini, viole violoncelli ed imi contrabbassi; lampèggiano schiere inferocite di trombe e tromboni; deflàgrano fucilerìe timpanìstiche ed inauditi putiferii di grancasse; voltèggiano insatanate torme clarinettìstiche e venèfiche filze di corni metàllici, d'oblunghi òboi e efferati fagotti tempestati di castagnole: tra guizzi d'incandescenti arpe lascive: tra fulminìi d'ottavini flagellanti, sotto l'incalzare di una rìtmica matta e cocciuta... Promana attorta la buriana sotto parvenza di meraviglièvole giga nello squassato paesaggio sonoro.
Ne zampìllano mostri, càrole d'atre chimere e fatture avventate al pùbblico degli ascoltatori-spettatori. Vòrticano sàgome temàtiche allampanate: incede una soffocante foltezza di motivi franti che d'un botto s'accàsciano e si sfanno in quèrule litanìe grottesche, che manco hanno finito il loro "ahi! ahi!" che con maligna sfrontatàggine risòrgono, ricompattati, a membruti proclami bèllici. Tristezze fasullìssime e baldorie apocalìttiche, barbarità tonitruanti e sarcasmi all'àcido prùssico, lai e scherni, valzerini scollacciati e marce tartaree, volgarità canzonettìstiche e madornali squisitezze di scrittura, mòduli d'avant-garde e reperti d'accademia: echi di Mahler, e Prokof'ev, e Stravinskij. E' un còsmico calderone ove l'uomo - l'immàgine sua già fulgida un tempo, ora straziata - è dal linguaggio shostakoviano compianta e irrisa, carezzata e vituperata, amata e odiata: in un ginepraio d'immediati voltafaccia esemplari...
Già, ça va sans dire, intruppati nei tetràgoni apparati staliniani, i crìtici soviètici insòrsero allora unìvoci e cruenti contro i contenuti e le forme dell'obesa "Sinfonìa", condannata quale mùsica degenerata e degenerante, filoccidentale, affatto nemica ai gusti sani e alle coscienze probe dell'educande masse socialiste e progressiste, per le quali era d'uopo, ad inappellàbile giudizio de' capi dell'Estètica statale, mùsiche cartolinesche, cantari manierosi e accenti apologètici. E Shostakovic, artista di valore e però tempra di pusillànime - accade, sì, accade anche fra gente d'acuità e talento - fece pùbblica e disonesta autocrìtica: tirando a campar la vita sua meschina ed impaurita, umanamente costipata d'untuosi compromessi estètico-ideoloòici, magari amareggiati da gli effetti immedicàbili dell'interiore e grave intrico...
XXV) La morte (e la mùsica)
La morte: suprema fregnaccia su le cui ginocchia è giocoforza posare una volta il capo. L'uomo si è consumato lungo i sècoli ad indagarla, e ogni volta che gli pareva di disvelarne il segreto sembiante, la di lei vorace bocca l'ha inghiottito. E non se n'è più saputo niente. Diceva Persio, de nihilo nihil.
Qualcuno della congrega dei savi la morte l'ha sminuita d'importanza. Jean Paul Sartre, ad esempio, l'ha giudicata un mero fatto al pari della nàscita: essa ci giunge dall'esterno e ci trasforma in esteriorità: "In fondo la morte non si distingue in alcun modo dalla nàscita: anzi, assoluta identità". Altri, come Wilhelm Dilthey, l'ha patita quale implacata "limitazione della vita", ed altri ancora, ad esempio Tomaso d'Aquino, l'ha fatta derivare da un ineliminàbile difetto dell'assoggettamento del corpo all'ànima...
Sono pochissimi a blandirla e benedirla. Platone la ritiene addirittura una manna, scesa ad affrancare l'ànima dalla fetenzìa corporea; e occorre giusto uno seràfico e càndido come Marc'Aurelio per sorrìderle benignamente poiché essa giunge a sottrarlo ad ogni impaccio e indecenza e ridicolàggine dell'umano soggiorno...
In somma, fintantoché se ne ragiona, la morte è cosa quasi costumata: addirittura ti barbaglia di lontano una qualche sua lusinghetta. Ma quando te la senti addosso, artigliosa e magalda, ecco ch'essa si fa più folle e screanzata di Aletto, Tisifone e Megera; e ti senti rapito dal magone più potente e feroce, ed il cielo annerisce, e il tuo cuore s'attorciglia più d'un uragano. Le parole assennate dispàiono, i concetti si svuotano della propria polpa, le teoresi si sciòlgono in inanità, e un sinistro ghigno fende ìspido l'ètere... E' allora, nell'incòmbere del bàratro, che le Muse onde esprìmere ed insieme medicare la disperazione del dramma in fieri si vòlgono alla loro sorella più materna e fonda: ambasciatrice sia in terra del reame degli angeli, sia in noi del nostro anelare alla salvezza dal gran misfatto: s'intende Euterpe, o sia la mùsica, voce d'amore postremo. Musica e morte, come amore e morte, appartengono a una medesima arcana sostanza. E come la memoria: dopo l'addio, il luogo supèrstite del ritrovarsi.
XXIV) Gorgia dixit
Anche Gorgia da Leontini ci assicura che non esiste un bel niente al mondo: e manco il mondo stesso. Dato che se l'èssere esistesse tre sarebbero i casi: o sarebbe eterno, o sarebbe generato, o sarebbe entrambi.
A) Se l'èssere fosse eterno non avrebbe di conseguenza alcuna orìgine, e dunque sarebbe illimitato. Ed essendo illimitato non sarebbe contenuto in alcun luogo, dato che non c'è luogo che possa contenere l'illimitato a meno di non concepire, per assurdo, un contenuto più grande del contenitore. E neppure si può concepire il contenuto corrispondente al contenitore poiché sarebbe come affermare che l'èssere è dùplice: luogo e corpo nel contempo.
B) Se l'èssere fosse generato non potrebbe èssere generato che dal non èssere. Ma il non èssere non è e dunque non può generare.
C) Se l'èssere fosse insieme eterno e generato significherebbe che l'eternità ha un principio, il che è una contraddizione in tèrmini. Infatti chi potrebbe negare che se sei eterno non sei mai nato, e se sei nato vuol dire che non sei eterno?
Morale della fàvola: non esìstono né l'èssere né il non èssere. (Che non esista il non èssere, va da sé, è d'una evidenza disarmante).
Non è a dubitare che il miràbile e virtuosìstico ragionamento di Gorgia, qui espresso per ràpidi tratti, fili dritto come una Ferrari. E però se mi capitasse d'andare a sbàttere contro un bòlide di Maranello, come potrei, tutto sgrugnato in una stanzetta ospedaliera, asserire che quell'automòbile non sia mai esistita e che le mie doloranti ammaccature altro non sono che fole?... Tra lògica e realtà qualcosa non funziona. O l'una o l'altra mi prende pel culo, come mi ci prende già, da lunga pezza, il rebussìstico rapporto tra parola e oggetto correlato, o vero tra significante e significato. Nel senso che non trovo, e non troverei manco sul vocabolario, i tèrmini linguìstici atti ad esprìmere i miei pensieri. E se ascolto gli altri uòmini, mi pare che i loro discorsi s'infìlino tra le nùvole. Si va per approssimazioni che non rare volte pròvocano penose incomprensioni, immisericordi qui pro quo... Aveva ragione ancora una volta Gorgia, il quale asseriva che se pur qualcosa esistesse non sarebbe comunicàbile.
Non resta che tacere, ed alzare bandiera bianca di fronte al nulla e alle sue contraddizioni.
A) Se l'èssere fosse eterno non avrebbe di conseguenza alcuna orìgine, e dunque sarebbe illimitato. Ed essendo illimitato non sarebbe contenuto in alcun luogo, dato che non c'è luogo che possa contenere l'illimitato a meno di non concepire, per assurdo, un contenuto più grande del contenitore. E neppure si può concepire il contenuto corrispondente al contenitore poiché sarebbe come affermare che l'èssere è dùplice: luogo e corpo nel contempo.
B) Se l'èssere fosse generato non potrebbe èssere generato che dal non èssere. Ma il non èssere non è e dunque non può generare.
C) Se l'èssere fosse insieme eterno e generato significherebbe che l'eternità ha un principio, il che è una contraddizione in tèrmini. Infatti chi potrebbe negare che se sei eterno non sei mai nato, e se sei nato vuol dire che non sei eterno?
Morale della fàvola: non esìstono né l'èssere né il non èssere. (Che non esista il non èssere, va da sé, è d'una evidenza disarmante).
Non è a dubitare che il miràbile e virtuosìstico ragionamento di Gorgia, qui espresso per ràpidi tratti, fili dritto come una Ferrari. E però se mi capitasse d'andare a sbàttere contro un bòlide di Maranello, come potrei, tutto sgrugnato in una stanzetta ospedaliera, asserire che quell'automòbile non sia mai esistita e che le mie doloranti ammaccature altro non sono che fole?... Tra lògica e realtà qualcosa non funziona. O l'una o l'altra mi prende pel culo, come mi ci prende già, da lunga pezza, il rebussìstico rapporto tra parola e oggetto correlato, o vero tra significante e significato. Nel senso che non trovo, e non troverei manco sul vocabolario, i tèrmini linguìstici atti ad esprìmere i miei pensieri. E se ascolto gli altri uòmini, mi pare che i loro discorsi s'infìlino tra le nùvole. Si va per approssimazioni che non rare volte pròvocano penose incomprensioni, immisericordi qui pro quo... Aveva ragione ancora una volta Gorgia, il quale asseriva che se pur qualcosa esistesse non sarebbe comunicàbile.
Non resta che tacere, ed alzare bandiera bianca di fronte al nulla e alle sue contraddizioni.
XXIII) L'arte è nemica della patria
Lungo le celebrazioni per il duecentocinquantèsimo anniversario dell'Unità d'Italia, s'è andato discorrendo del patrimonio stòrico dell'arte italiana come richiamo d'aggregazione e motivo d'unione del pòpolo italiano. In realtà nulla è più falso della concezione dell'arte come riferimento dell'appartenenza di un pòpolo. I geni sono figli dell'umanità, non di una gente, al pari delle òpere d'arte il cui valore e significato trascèndono le dimensioni del tempo e dello spazio. Né è legìttimo sostituire la sfera ètica con quella estètica, cui non è conceduto di succèdere alla "polìtica". Il Bello, inteso al godimento della pura forma, non è correlàbile alla "polis", volta all'organizzazione sociale dell'uomo.
Del resto, il sentimento della patria è affatto circoscritto, quello dell'arte s'espande ad infinitum. I grandi artisti non hanno patria, diceva De Musset. Bismarck appartiene alla Germania, Wagner al mondo. Bismarck ha fatto grande la Germania, Wagner il mondo. La patria è un "particulare" radicato nella realtà dell'immanenza; l'arte un assoluto. La patria è la coscienza di un'appartenenza; l'arte è la patria ideale del mondo, nel quale quell'appartenenza si dissolve e vanìfica.
XXII) Vienna felix
C'è un elemento straordinario nella Costituzione americana: la categòrica affermazione del diritto inalienàbile dell'uomo alla "ricerca della felicità". Nel regno della mùsica c'è stata una città che ha voluto perseguire e realizzare detto fine: Vienna, dai tempi di Mozart ai tempi di Johann Strauss.
Vienna, ovvero l'"Austria felix" degli Absburgo, da Maria Teresa a Francesco I, ottimo reazionario, ed a Francesco Giuseppe. Il quale infine avvolse se stesso, la sua corte ed il crepùscolo della gran civiltà danubiana - era ormai la "finis Austriae" - nella dimèntica voluttà, nei ritmi capricciosi, nei sentimenti distratti e fatui dei valzer, dei galopp, delle polche. Dal minuetto mozartiano, accompagnato dai nèttari di Boemia, all'operetta della belle époque austro-ungàrica dissetata a suon di champagne ("Es lebe Champagner der Erste"!), Vienna è stata il salotto della felicità. "Questa città, paradiso senza foglia di fico, senza serpente e senza àlbero della conoscenza", annotava verso metà Ottocento lo scrittore tudesco Heinrich Laube, spettatore fascinato di pirouettes et tours ardis.
La felicità era mùsica, e la mùsica era danza, nel capoluogo della felicità. Dapprima nobili di corte e principesse, in balli ove le mani soltanto giungevano a sfiorarsi: e già potevano èssere brìvidi assai temìbili da un Settecento illuminato ma troppo illuminìstico. Certo, si trattava di minuetti, ché il valzer, ancorché bramato, era in sospetto di perdizione. Tant'è che il giovane Werther nel 1774 solennemente proclamava: "Alla donna che amo, il valzer non consentirò mai, anche a costo della vita, di ballarlo con altri all'infuori di me". Sarèbbero bastati pochi decenni, e non soltanto la sua Lotte, ma l'intero Congresso di Vienna avrebbe discusso a ritmo di valzer.
Dopo gli aristocràtici scesero in campo, a volteggiare e partecipare all'apoteosi musicale della metròpoli, potenti borghesi, banchieri, magnìfiche signore e fior di fanciulle allo sbocciare de' diciott'anni: quest'ùltime per apprèndere la fragilità, gli altri per gioire del "carpe diem". Giunse altresì il tempo dei tenenti seduttori, dei buròcrati azzimati e, nel vòrtice della felicità, si concèssero miraggi persino alle sartine, tutt'insieme uniti dall'ebrietà del Danubio (che fosse liricamente bleu o realisticamente giallastro, poco o punto importava). La mùsica invitava alla gentilezza ed alla sensualità. Quel valzer, o sia quella "duorum in gyrum saltatio", s'estendeva all'intera cittadinanza e da lì si propagava nelle terre di Cacania, inventate e pitturate dalla monarchìa imperial viennese, fùlgido emblema della Mitteleuropa...
Come ogni cosa bella o, più veramente, presunta tale, anche quell'esultanza musicale volse un giorno al tèrmine. Essa però era ancora sì forte, durante l'agonìa, che il sentimento della "Sehnsucht", o della nostalgìa per ciò ch'era stato, invece di declinare e appartarsi in una dòcile sordina, si gettò nel gorgo dell'epicureismo più odoroso di vita; e Vienna ancora una volta si vestì a festa affidàndosi a Strauss "il grande", ai valzer del quale portàvano profondo rispetto Wagner e Brahms, Liszt, Mahler e Ravel... Perché tanta ammirazione da parte di compositori sì rilevanti per un facitore di ritmi ternari? Alla domanda, posta più volte e da più parti, aveva dato risposta un "Inno" di Hoelderlin: "Denn schwer ist zu tragen das Unglueck, aber schwerer das Glueck", ("Poiché è difficile reggere l'infelicità, ma ben più difficile è reggere la felicità")...
Trascòrrono gli anni. Ormai a tèssere l'elogio della felicità musicata da Strauss non sarèbbero stati più personaggi dai marmorei mustacchi bensì vèdove allegre e conti tipo Danilo Danilowitsch, ratti tombeurs des femmes che prediligèvano gli ambienti parigini di Chez Maxim's e la calda compagnia delle Froufrou, Dodo, Margot... Da Strauss a Franz Lehàr. Il kitsch, il cupio dissolvi, l'apres nous le déluge, intonati per la banalità con tenerìssimo coraggio. Postreme gocce del wiener Blut, il sangue viennese. Di là era in attesa l'angoscia espressionista: le melodìe danubiane sarèbbero state sostituite dalle prese di coscienza della Seconda Wiener Schule. I fiori dipinti da Hans Makart sarebbero appassiti negli àcidi tratti da Oscar Kokoschka e dalla Secessione...
Vienna, ovvero l'"Austria felix" degli Absburgo, da Maria Teresa a Francesco I, ottimo reazionario, ed a Francesco Giuseppe. Il quale infine avvolse se stesso, la sua corte ed il crepùscolo della gran civiltà danubiana - era ormai la "finis Austriae" - nella dimèntica voluttà, nei ritmi capricciosi, nei sentimenti distratti e fatui dei valzer, dei galopp, delle polche. Dal minuetto mozartiano, accompagnato dai nèttari di Boemia, all'operetta della belle époque austro-ungàrica dissetata a suon di champagne ("Es lebe Champagner der Erste"!), Vienna è stata il salotto della felicità. "Questa città, paradiso senza foglia di fico, senza serpente e senza àlbero della conoscenza", annotava verso metà Ottocento lo scrittore tudesco Heinrich Laube, spettatore fascinato di pirouettes et tours ardis.
La felicità era mùsica, e la mùsica era danza, nel capoluogo della felicità. Dapprima nobili di corte e principesse, in balli ove le mani soltanto giungevano a sfiorarsi: e già potevano èssere brìvidi assai temìbili da un Settecento illuminato ma troppo illuminìstico. Certo, si trattava di minuetti, ché il valzer, ancorché bramato, era in sospetto di perdizione. Tant'è che il giovane Werther nel 1774 solennemente proclamava: "Alla donna che amo, il valzer non consentirò mai, anche a costo della vita, di ballarlo con altri all'infuori di me". Sarèbbero bastati pochi decenni, e non soltanto la sua Lotte, ma l'intero Congresso di Vienna avrebbe discusso a ritmo di valzer.
Dopo gli aristocràtici scesero in campo, a volteggiare e partecipare all'apoteosi musicale della metròpoli, potenti borghesi, banchieri, magnìfiche signore e fior di fanciulle allo sbocciare de' diciott'anni: quest'ùltime per apprèndere la fragilità, gli altri per gioire del "carpe diem". Giunse altresì il tempo dei tenenti seduttori, dei buròcrati azzimati e, nel vòrtice della felicità, si concèssero miraggi persino alle sartine, tutt'insieme uniti dall'ebrietà del Danubio (che fosse liricamente bleu o realisticamente giallastro, poco o punto importava). La mùsica invitava alla gentilezza ed alla sensualità. Quel valzer, o sia quella "duorum in gyrum saltatio", s'estendeva all'intera cittadinanza e da lì si propagava nelle terre di Cacania, inventate e pitturate dalla monarchìa imperial viennese, fùlgido emblema della Mitteleuropa...
Come ogni cosa bella o, più veramente, presunta tale, anche quell'esultanza musicale volse un giorno al tèrmine. Essa però era ancora sì forte, durante l'agonìa, che il sentimento della "Sehnsucht", o della nostalgìa per ciò ch'era stato, invece di declinare e appartarsi in una dòcile sordina, si gettò nel gorgo dell'epicureismo più odoroso di vita; e Vienna ancora una volta si vestì a festa affidàndosi a Strauss "il grande", ai valzer del quale portàvano profondo rispetto Wagner e Brahms, Liszt, Mahler e Ravel... Perché tanta ammirazione da parte di compositori sì rilevanti per un facitore di ritmi ternari? Alla domanda, posta più volte e da più parti, aveva dato risposta un "Inno" di Hoelderlin: "Denn schwer ist zu tragen das Unglueck, aber schwerer das Glueck", ("Poiché è difficile reggere l'infelicità, ma ben più difficile è reggere la felicità")...
Trascòrrono gli anni. Ormai a tèssere l'elogio della felicità musicata da Strauss non sarèbbero stati più personaggi dai marmorei mustacchi bensì vèdove allegre e conti tipo Danilo Danilowitsch, ratti tombeurs des femmes che prediligèvano gli ambienti parigini di Chez Maxim's e la calda compagnia delle Froufrou, Dodo, Margot... Da Strauss a Franz Lehàr. Il kitsch, il cupio dissolvi, l'apres nous le déluge, intonati per la banalità con tenerìssimo coraggio. Postreme gocce del wiener Blut, il sangue viennese. Di là era in attesa l'angoscia espressionista: le melodìe danubiane sarèbbero state sostituite dalle prese di coscienza della Seconda Wiener Schule. I fiori dipinti da Hans Makart sarebbero appassiti negli àcidi tratti da Oscar Kokoschka e dalla Secessione...
XXI) Malìe dell'operetta
Ma che cose magnifiche: da "Orfeo all'inferno" di Offenbach a "Il pipistrello" di Strauss, da "La bella Elena" del primo a "Lo zìngaro barone" del secondo, da "Le campane di Corneville" di Planquette a "La vèdova allegra" di Lehàr...
Parafrasando Karl Kraus, potremmo dire che l'operetta viennese e francese fin de siècle gode di una caratterìstica tutta sua: ci fa provare per la prima volta stati d'animo di cui, non sappiamo come, ci sembrava d'aver già il ricordo. Per ascoltare ed amare l'operetta viennese non è infatti necessario aver la privilegio di bisnonni triestini che ci àbbiano narrato e tramandato la favola mitteleuropea dei loro bei tempi andati e apparentemente "perduti": e tanto meno è indispensàbile aver indagato su i nodi della crisi socio-polìtica del mondo danubiano o sulle temàtiche culturali della Decadenza austrìaca. Così come per ascoltare l'operetta parigina non occorre immèrgersi nell'esprit del Second Empire e approfondire le ragioni della disfatta di Sedan, intrugliata di can-can e galop. Basta invece, se si vuole, far posto alla nota indulgenza dei sentimenti, concèdere loro appena un soffio di vanità e di mondano compiacimento, slacciare se mai il corsetto alla musa della sensibilità affinché ci visiti lìbera da ogni pregiudizio, e non temere malizie e malìe di melanconìa ed allegrezza, intrecciate e svagate insieme, che di sicuro compariranno da questo lieve ed inappagabile abbandono emotivo.
Rammento che fu la mia professoressa di Lettere al Ginnasio la prima ad insegnarmi che "Barocco", "Classicismo", "Romanticismo" sono definizioni non tanto di stagioni culturali ed artìstiche, storicamente determinate, quanto d'atteggiamenti eterni della vita dello spìrito. Ebbene l'ascolto dell'operetta ci dimostra - a suo modo e nella sua misura - che anche la "Belle époque" non tanto è stato quel periodo breve fra Otto e Novecento, postrema spiaggia di lieta follìa prima dell'avvento del secondo e tràgico medio evo dell'Occidente, quanto una costante e insopprimìbile esigenza dei piaceri tratti dal gioco sentimentale, un anèlito leggiero alle piccole ebrezze, ai minùscoli vòrtici e agli spumini dell'esistenza quotidiana, per l'occasione vestita a festa dalla premiata Maison de couture della Borghesìa. E' per tale ragione che l'operetta viennese, tenace lusinga della "Belle époque", sa sollecitare stati d'animo che noi, occultamente, confusamente e con segreta ansia, abbiamo sempre intuito ed alimentato, in attesa di vederli riflessi in un qualcosa di oggettivo, di esterno a noi. E' per tale ragione, ancora, che quanti ascòltino l'operetta e ossèrvino questo specchio opaco delle proprie nostalgìe, ricevono ricordi e immagini immediate di un proprio modo d'èssere, privato e sommerso. Uno spettàcolo fuor di dubbio "minore" rispetto al grave melodramma; permeato di contenuti effìmeri, più ricamati che spiegati, fràgili come bolle di sapone; eppure spettàcolo insostituìbile nel conforto e nell'elogio della nostra innata fievolezza, dei nostri prepotenti diritti al godimento della futilità.
XX) J. S. Bach
Johann Sebastian Bach non è musicista del passato ma "idea" del futuro, là dove la consumazione del tempo s'immette e si scioglie in cio che provvisoriamente definiamo eterno. In questo senso parlare di "conservazione" a propòsito della lingua bachiana assume il significato riduttivo e la funzione limitativa di puntualizzare talune modalità linguistiche in rapporto ad un processo stòrico di poètiche che il sommo compositore tedesco trascende: nell'universalità di espressioni la cui assoluta immediatezza rende archètipi. Se mai sia da rilevare come "lo spìrito dei tempi" che alimenta Bach - spìrito metafisico che assorbe e "neutralizza" la Storia e la dialèttica di questa in una visione di sìntesi astraente - questo "spìrito dei tempi" violentemente incentrato sulla certezza di un'egemonìa escatològica costituisce l'ideale àlveo per respìngere a priori ogni immanenza del divenire stòrico. E' pertanto naturale che per la religiosità di Bach la mùsica sia specchio dell'Assoluto, mentre per i musicisti del Classicismo sarà "costruzione" dell'Assoluto (così da Mozart a Beethoven), e per i musicisti del Romanticismo "conquista" dell'Assoluto.
Una volta accettata da siffatta angolazione l'essenza dell'arte sacra bachiana, viene altresì modificato il valore del problema concernente l'interpretazione esecutiva. Si dibatte con fervore da oltre trent'anni la necessità d'affrontare i testi dell'època rinascimentale e barocca con metodologìa improntata a efficientismo filològico, onde restituire veste originaria alle òpere. Ma il nodo essenziale non è la resa di una "veridicità" sonora aridamente storicìstica, d'altronde quasi impossìbile a cògliersi per difetto di strumenti d'indàgine. Piuttosto occorre rapportare all'esperienza estètica contemporanea il "sentimento" di quell'Assoluto il quale, ponèndosi al di fuori di ogni dinàmica al contrario del "clàssico" e del "romàntico", non esige ricostruzione di radicale ed esasperata fedeltà, e perciò irrealizzàbile, bensì un "intelligente" atto di fede, un'emotività interpretativa che, nutrita di presente, rifranga nel presente l'infinita pulsione metafìsica. Esempi: quando Wilhelm Furtwaengler o Joseph Mengelberg dirigevano la "Passione secondo Matteo", pur avvolgendola nelle auree ancora pregnanti della "Romantik", recavano da essa la cifra di una straordinaria ed "esaustiva" espressività.
Va da sé che l' "attualizzazione" di una mùsica litùrgica barocca non signìfica punto travòlgerne lo stile ed ignorarne i segni e i riferimenti sintàttici: allo stesso modo che l'impiego appropriato di strumenti d'època ci avvicina alla contingenza dell'estrinsecazione coloristica. Contingenza, giacché se la musica di Chopin è inimmaginàbile al clavicèmbalo, Bach è parimenti esaltato sul violino o sulla viola d'amore, e "Die Kunst der Fuge" esprime il sublime sia mediante l'òrgano sia sul quartetto d'archi, o addirittura nell'astratta lettura sul pentagramma.
domenica 14 ottobre 2012
XIX) Apocalissi
Occorre un contenitore emotivo gigantesco onde assembrare senza dispersione la serrata sfilza di suggestioni che gràndinano dall'universo wagneriano. Gràndinano pietre preziose monumentali, frammenti di vestigia imponenti, sublimi trafitture liriche, fastosi effluvi di sensualità estenuata, lacerti di mitiche panoplie, brandelli di auto da fé e terrìfici olocausti. Se n'esce intrisi d'uno sconvolgimento estremo, e l'aria fresca che si respira appena al di fuori pare il sollievo della "miseria" che irride al lusso tremolante delle illusioni.
Wagner è uno di quei padri opprimenti cui devi riconoscere, dopo averli contestati con violenza, che sono dalla parte della ragione. La loro verità tuttavia non è soltanto gravosa: essi te la grìdano in faccia autoritariamente, e tu devi accettarla in toto altrimenti ti diserèdano: e se ti diserèdano ti senti òrfano, oltre che regredito ad uno stadio d'intolleràbile e colpèvole diseducazione.
Lo spìrito e il genio tedeschi sono peraltro avvezzi alle costruzioni smisurate quasi in ogni campo dell'umano, e in ogni època stòrica. Tuttavìa non si era mai data l'applicazione dello "sconfinato" al mesto canto di morte di una civiltà, quella del Romanticismo, nel tripudio di una Decadenza che ne celebra l'apocalissi e ne appronta vorace il rito fùnebre. Al confronto, il tramonto absbùrgico nella vicina terra austriaca appare un trastullo infantile, una "Daemmerung" diciamo "prima misura", tant'è che qui si bàllano distrattamente i valzer straussiani, giusto un poco immelanconiti (vezzi viennesi). Lì invece precìpitano rovinosamente schiatte di Dèi pravi e vizzi, avvinghiati a innocenti idealisti ed epicurei, ad eroi ed eroine sfiancati da terapìe e filtri demonìaci. I fumi che dilàgano e sàlgono dal ventre della terra verso l'universo s'illùminano dei lapilli eruttati dal Wahalla in fiamme. E non ostante la catàstrofe còsmica che atterrisce i nervi e prosciuga il sangue di chiunque vi assista soggiogato, ecco quella volontà del "cupio dissolvi", quella sarabanda dei sensi morsi dalla costrizione del dissolvimento. Tristano e Isotta? Morire è il meno che pòssano fare: non sono stati mìopi e meschini amanti bensì i ragionieri impeccàbili e regali di quel "tramonto".
Wagner è uno di quei padri opprimenti cui devi riconoscere, dopo averli contestati con violenza, che sono dalla parte della ragione. La loro verità tuttavia non è soltanto gravosa: essi te la grìdano in faccia autoritariamente, e tu devi accettarla in toto altrimenti ti diserèdano: e se ti diserèdano ti senti òrfano, oltre che regredito ad uno stadio d'intolleràbile e colpèvole diseducazione.
Lo spìrito e il genio tedeschi sono peraltro avvezzi alle costruzioni smisurate quasi in ogni campo dell'umano, e in ogni època stòrica. Tuttavìa non si era mai data l'applicazione dello "sconfinato" al mesto canto di morte di una civiltà, quella del Romanticismo, nel tripudio di una Decadenza che ne celebra l'apocalissi e ne appronta vorace il rito fùnebre. Al confronto, il tramonto absbùrgico nella vicina terra austriaca appare un trastullo infantile, una "Daemmerung" diciamo "prima misura", tant'è che qui si bàllano distrattamente i valzer straussiani, giusto un poco immelanconiti (vezzi viennesi). Lì invece precìpitano rovinosamente schiatte di Dèi pravi e vizzi, avvinghiati a innocenti idealisti ed epicurei, ad eroi ed eroine sfiancati da terapìe e filtri demonìaci. I fumi che dilàgano e sàlgono dal ventre della terra verso l'universo s'illùminano dei lapilli eruttati dal Wahalla in fiamme. E non ostante la catàstrofe còsmica che atterrisce i nervi e prosciuga il sangue di chiunque vi assista soggiogato, ecco quella volontà del "cupio dissolvi", quella sarabanda dei sensi morsi dalla costrizione del dissolvimento. Tristano e Isotta? Morire è il meno che pòssano fare: non sono stati mìopi e meschini amanti bensì i ragionieri impeccàbili e regali di quel "tramonto".
XVIII) L'enigma dell'arte
L'Arte combatte la sua battaglia per possedere il mondo. Una battaglia perduta ab origine, perché "l'artista è un èssere nel mondo", e il mondo è da lui trasfigurato prima ancora d'èssere conosciuto. La realtà diventa poesia, forma dell'inesprimìbile, e l'inesprimìbile postremo orizzonte del mondo. Il gioco della creazione paga il prezzo dell'infinito con la solitùdine; la trascendenza del sentimento con l'impossibilità a riversarsi sull'altro da sé; il privilegio della natura astratta, e quindi universale, con il supremo grado della individualizzazione.
L'enigma dell'Arte - di ogni forma d'arte - consiste nella capacità-necessità di staccarsi dal mondo oggettivo visivamente e concettualmente definito.
Proprio la scienza semiològica è la più rimota dal cuore della verità artìstica. I segni, vettori che non rècano altro che l'ammirazione di se stessi, sìano essi verbali, pittòrici, architettònici, musicali, si nègano alla razionalizzazione e alla scomposizione, ed a noi proclàmano l'imperscrutabilità poètica dei loro contenuti. Ciò perché i segni non tràggono ispirazione dal mondo comune degli uòmini ma dall'uomo sìngolo, irrepetìbile, il cui ànimo è estraneo ad ogni altro.
Kant aveva intuito che la sublimità dell'Arte non risiede in alcuna cosa della natura, ma soltanto nel nostro profondo io allorché possiamo avvertire d'èssere superiori alla natura che è in noi, e quindi alla natura che è fuori di noi. Conferma l'asserzione heideggeriana: "das sich in-Werk-setzen der Warheit des Seienden", il mèttersi in òpera della verità dell'essente. La mùsica èleva al sommo grado quell'enigma.
Ciò però non sta a significare che l'òpera d'arte che nasce, si realizza e materialmente si afferma nella dimensione "figurativa" (o scènica) non abbia necessità, per manifestarsi nell'accezione fenomenològica del tèrmine, di siffatta dimensione. Ché anzi il riferimento del mondo sensìbile in tal caso sta come supporto, come base di lancio allo sprigionarsi e all'espàndersi del divenire fantàstico verso la suprema meta della "Bellezza". La "visualizzazione" sarà sì distrutta e inglobata dalla pura immaginazione nella realtà ùltima della poesia, ma ne è stata altresì un presupposto, occasione votata al sacrificio.
XVII) Nietzsche o la grande illusione
Nietzsche, lirico e spietato, terrìbile tiranno dell'ànima e tenero come un bambino, disumano come un eroe e poeta romàntico nel cuore. Nietzsche, sensuale morboso e asceta divorato, elegantìssimo filòlogo tudesco e filòsofo dell'irrealtà, musicista fin nelle fibre più profonde e musicista mancato. La grandezza di Nietzsche fu tale perché egli non fu vero poeta , non vero filòsofo, non vero asceta, non vero musicista. Non fu nulla, e fu tutto. Suprema incarnazione dell'ideale del "dilettante": di colui che scorge ed afferra l'ansia della vita ed in nulla la risolve, bensì la volge ad una costellazione d'intuizioni vaganti e di dubbie contraddizioni - "dubbie" perché la massima contraddizione, quella dell'esistenza, fu per Nietzsche l'unico paradosso che rivelava, alla prova dei fatti, razionalità e chiarezza - onde la personalità si dilata a dismisura, svuota i dati, ne sfuma i contorni, poi, tragicamente libera, padrona del proprio abisso, giunge ad abbracciare l'impossìbile, l'Utopìa.
La vita, affermò Nietzsche, è fatta di singoli e rari istanti di altìssimo significato e d'infiniti intervalli ove d'intorno vàgano le ombre di quegli istanti. L'amore, la primavera, ogni bella melodìa, la montagna, la luna, il mare: tutto parla al cuore per una volta sola, seppur giunga mai a parlare. Giacché molti uòmini non possèggono affatto quegli istanti e sono essi stessi intervalli e pause nella sinfonìa della vita reale (così in "Umano, troppo umano" I). In Nietzsche vinse la brama di protrarre nell'eterno quell'"unica volta", quell'"istante": un' "ùnica volta" voler èssere poeta, un' "ùnica volta" filòsofo, asceta, musicista... Perché solo ciò che è sìngolo ed ùnico può essere assoluto. Gli scontri con la realtà - realtà che invece assolutizza soltanto gli "infiniti intervalli" e cresce nelle "pause" - fùrono agghiaccianti per il pensatore. Il suo dilettantismo metafìsico gli sarebbe costato la follìa, e l'Ubermensch, il superuomo nato dall'Olimpo goethiano, avrebbe in fine ceduto alla sorda ed indistruttìbile maggioranza che s'aggira fra le "ombre".
Forse perché fu la Mùsica il noùmeno che plasmò, infiammò e sconvolse lo spìrito nicciano, di là d'ogni altra entità d'inveramento dell'uomo e dell'artista - la Musica quale essenza della poesìa e persino dell'opus summum "Also sprach Zarathustra" - Nietzsche non potè mai essere un autèntico musicista: infatti il "dilettante" assoluto è più dilettante in ciò a cui aspira e anela.
Solo parzialmente ed in via subordinata, la mancata preparazione di base, l'insufficiente padronanza della tècnica e della costruzione formale, la dubbia possanza dell'originalità inventiva, l'incapacità d'orchestrazione contribuìrono a determinare gli èsiti negativi delle composizioni: esse non potèvano riuscire altrimenti considerando la natura psicològica e la struttura emotiva dell'autore. Come un desiderio che s'ingigantisca progressivamente fino a paralizzare chi lo viva: di quei supremi desideri che il destino assegna a l'umana limitatezza affinché non pòssano mai èsser appagati.
Avrebbe scritto Lou Andreas von Salomé, la letterata e psicanalista amica-amata di Nietzsche: "Più in alto si elevava, come filòsofo, più in profondità soffriva, come uomo, sotto il suo credo vitale. Questa battaglia dell'ànima, la vera fonte di tutta la sua ùltima filosofìa, che i suoi libri ed i suoi detti ci fanno intravedere appena incompiutamente, risuona forse in modo più toccante attraverso la mùsica di Nietzsche per il mio Lied
Nietzsche, che all'età di dieci anni aveva preso a studiare pianoforte, com'èrano abituati i bambini d'ogni buona famiglia della borghesìa tedesca, ed a ùndici aveva fatto dono natalizio alla nonna di un Motetto, non compose più negli anni postremi. Tuttavia nel 1900, poco prima di morire tra le fitte nebbie della pazzìa, solo la Mùsica era rimasta oggetto della sua agonizzante attenzione mentale.
XVI) La verità esiste. Anzi, no.
Nell'antica Grecia, i Sofisti ammaestràvano i giòvani (ed i non giòvani) a ragionare con rigore fin paradossale ed a parlare con virtuosismo dialèttico, consci dell'impossibilità di cògliere la presunta verità e persuasi della relatività del tutto.
Dicevano: non esiste un'Etica universalemente vàlida, non il bene e il male in assoluto, poiché ciò che è bene per l'uno è male per l'altro. La malattìa è un male per l'ammalato ma un bene per il mèdico; le scarpe logorate sono un male per chi le calza ma un bene per il calzolaio; la conquista di Troia fu un bene per gli Achei, ma un male per i Troiani; la morte è un male per il morituro, ma un bene per l'impresario di pompe fùnebri...
E cose sìmili i Sofisti solèvano dire intorno al bello e al brutto. Per i Macèdoni era bello che la donzella prima del matrimonio concedesse le sue grazie ad un uomo, ma per i Greci era brutto; i Lidi opinàvano cosa bella che una fanciulla dopo èssersi prostituita si sposasse, ma i Greci nient'affatto; i Traci giudicàvano bello il tatuaggio delle ragazze, altre genti lo applicàvano ai condannati. E, più in generale, le cose che càpitano a propòsito sono belle, ma se a sproposito le stesse sono brutte...
Anàloghe condiderazioni circa il vero ed il falso. Se si proclama la colpevolezza di un uomo perché ha giurato il falso, il discorso è vero se colui è spergiuro, ma è falso se è innocente. Se dieci persone in fila dichiàrano "io sono greco", il discorso è vero solo per coloro che sono greci, ma falso per gli altri...
La verità è che la verità non esiste: essa è una parola che si contraddice, e contraddicèndosi annulla ciò che vorrebbe pomposamente ed altezzosamente affermare. Ma almeno questa è una verità? Se così fosse, la verità esisterebbe, e sarebbe dunque falsa la precedente conclusione che la verità non esiste.... Per non lambiccarsi il cervello, per non impazzire, si elìmini dall'orizzonte speculativo l'insolùbile problema.
Dicevano: non esiste un'Etica universalemente vàlida, non il bene e il male in assoluto, poiché ciò che è bene per l'uno è male per l'altro. La malattìa è un male per l'ammalato ma un bene per il mèdico; le scarpe logorate sono un male per chi le calza ma un bene per il calzolaio; la conquista di Troia fu un bene per gli Achei, ma un male per i Troiani; la morte è un male per il morituro, ma un bene per l'impresario di pompe fùnebri...
E cose sìmili i Sofisti solèvano dire intorno al bello e al brutto. Per i Macèdoni era bello che la donzella prima del matrimonio concedesse le sue grazie ad un uomo, ma per i Greci era brutto; i Lidi opinàvano cosa bella che una fanciulla dopo èssersi prostituita si sposasse, ma i Greci nient'affatto; i Traci giudicàvano bello il tatuaggio delle ragazze, altre genti lo applicàvano ai condannati. E, più in generale, le cose che càpitano a propòsito sono belle, ma se a sproposito le stesse sono brutte...
Anàloghe condiderazioni circa il vero ed il falso. Se si proclama la colpevolezza di un uomo perché ha giurato il falso, il discorso è vero se colui è spergiuro, ma è falso se è innocente. Se dieci persone in fila dichiàrano "io sono greco", il discorso è vero solo per coloro che sono greci, ma falso per gli altri...
La verità è che la verità non esiste: essa è una parola che si contraddice, e contraddicèndosi annulla ciò che vorrebbe pomposamente ed altezzosamente affermare. Ma almeno questa è una verità? Se così fosse, la verità esisterebbe, e sarebbe dunque falsa la precedente conclusione che la verità non esiste.... Per non lambiccarsi il cervello, per non impazzire, si elìmini dall'orizzonte speculativo l'insolùbile problema.
XV) L'italiano detronizzato
Ogni lingua è indispensàbile all'uomo perché è la generatrice del pensiero. La parola è l'opificio delle idee: vale a dire che a cercar vocàboli trovi concetti. Per pensare è indispensàbile una lingua verbale, che in primo luogo distingua l'uomo dagli altri animali.
Sarebbe forse bello se il mondo usasse un solo idioma, così come, a giudizio pitagòrico, esiste di là dalle sìngole mùsiche una mùsica còsmica: "la mùsica delle sfere". Si potrebbe eccepire che una lingua comune i terrestri oggi già ce l'hanno: l'anglo-americano... Libera nos Domine, giacché poco o punto ha più a che fare con l'inglese di Shakespeare e di Byron questa sozza farràgine di slang, di sgangheramenti labbiali, d'umori gutturali: sentina delle peggio costumanze linguìstiche d'ogni lingua scaraventata nella secchia pseudo anglista. Ma quanto più esùlcera taluno non è l'inglesite bensì il graduale rincular della lingua italiana nella considerazione de' pòpoli. Lingua dolce al pari di poche altre a cominciare da Petrarca, fantàstica come ne "L'Orlando furioso" ed eglogista nel Tasso, linda alla Baretti e supercoccolosa alla Metastasio, per tacere delle umide deliquescenze dannunziane e dei disfrenati "pasticciacci" verbali del sublime ingegner Gadda...
L'idioma del "sì" non è mai stato veicolo di polìtica o scienza, men che mai di morale e pràtica culinaria, ma è stato scranno corrusco dell'arte: di tutte le arti nel tumultuoso fluire de' sècoli, in specie dalla Rinascenza in poi. E fra le arti la mùsica, le cui semibiscrome sono state quasi sempre sollecitate ai suoni da tèrmini italiani: metti "Allegro", "Adagio", "Vivace", "Andante" nell'andar dei sogni sonori al colmo della commozione. E nel Settecento il melodramma parlava italiano, e nùgoli di mùsici europei musicàvano libretti italiani: basterebbe por mente a Mozart, che assunse i testi di Lorenzo Da Ponte onde dar pàlpito di poesia a tre capolavori assoluti quali "Don Giovanni", "Le nozze di Figaro" e "Così fan tutte". E nel sècolo dècimo nono l'òpera di Rossini ed in parte il melodramma emiliano di Verdi dettàrono legge fintanto che Richard Wagner non prese a conficcare nelle carni ormai "decadenti" degli ascoltatori i tòssici teutònici: l'ìtala favella si spaurò e s'appartò all'ombra dei Corazzini e Gozzano, non ostanti le tonitruanze di Mascagni & Leoncavallo...
Nàrrasi oggidì che la lingua dello Stivale non solo è clamorosamente stuprata sul bel (?) suol natìo, ma va chiudendo il labbro anche nelle scuole d'ogni òrdine e grado del globo... Quanto garberebbe ad una nostra ipotètica fierezza poter sclamare: "Peggio per te, globo sordo ed afasico! Già che non conosci la differenza tra manti e cenci, tu ciancia, ciancia pure nell'obbrobrioso inghilese!". Ma la suddetta fierezza ce l'hanno umiliata da lunga pezza, ed ora essa non può che prender vergogna di se stessa.
XIV) La follìa di Rossini
Nel colmo della notte più cupa e romàntica, o all'acme del più tràgico evento; nel momento in cui i sentimenti con più violenza sono percossi ed incatenati dalla disperazione, o in cui più vasto e soave il canto si effonde e dilaga dall'ànima estasiata, accade - nella musica di Rossini - che d'un tratto su quei sublimi e sconfinati orizzonti spùntino e barbàglino sonagli incontinenti, variopinti campanelli, disfrenate turcherìe, caravanserragli sonori, ritmi argentini, vispìssimi sciami di motivi scavezzacolli e fuoco di timbri irrefrenàbili. La sensibilità moderna, ormai difforme dalle crude piroette emotive (che un tempo la rendevano atlètica, dotta e elegante), resta di stucco, come attònita e scandalizzata a fronte di siffatta intrusione, che appare d'un sùbito insostenìbile intruglio di sacro e profano, antinomìa irresolùbile, smacco salace e spudorato, giuoco enigmàtico troppo involpito.
In effetti, nel ratto succèdersi, o nel connubio tout-court, di tràgico e festèvole, di trascendenza e mondanità, d'àulico eloquio e battute piccanti, sembra èsserci appena sotto la superficie il vermiglio zampino della follìa. Una fredda e invitta follìa che impasta, plasma e governa un'utopìa musicale tra le più arcane e perfette che la storia del linguaggio in suono occidentale abbia mai elaborato. In Rossini si àgita con movenza d'assoluta compitezza, al pari d'ogni gran follìa, una sorta di romanticismo e surrealismo, di classicismo e cubismo, il senso regale della tradizione e la provocante coscienza dell'eterno futuro che si riaggancia, quando meno ci se l'aspetti, al convoglio delle orìgini. Il frutto della mùsica rossiniana allora non può che èssere un ordine superiore, fuori della norma; una figura astratta e geomètrica; una trama impalpàbile ed aerea che règola, secondo modi propri, la configurazione, il diàlogo e il ritmo degli opposti sentimenti che àbitano la realtà dello spìrito umano.
Se non ci si dispone a compiere detto salto di qualità, ossìa ad osservare il mondo interiore da questa angolazione estètica eccezionale; se non ci s'impossessa di tale "follìa" rossiniana che ha sconvolto le usuali cadenze dell'aspettativa ed abbattuto i consueti scomparti della sensibilità onde trarne immàgini più lìmpide, teoremi più stringenti e catarsi più ardite, si corre il rischio di non comprendere il possente fàscino dell'universo del Pesarese.
(Sia rilevato a màrgine che ci vògliono dieci Bellini, venti Donizzetti, trenta Verdi per fare un Rossini).
XIII) Orologio, mon amour
Più e più volte, a tempo perso, mi domando se esista il tempo. Me lo domando non già perché "vassene il tempo e l'uom non se n'avvede", giusto Dante: giunto alla mia età non voglio cedere all'elegìa che forse, ahimè!, mi sarebbe fatale. Me lo domando perché se esiste il tempo non può esìstere l' "essere" ma soltanto il "divenire", nel quale l '"unità" dell'èssere non ha alcuna possibilità di risultare in modo definito, stante la perenne mutazione. Se per contro il tempo non esiste - ipòtesi che tengo per più poetica e suggestiva - l' "èssere" ha modo d'esìstere, e con lui l'infinito temporale, che è perlappunto negazione del tempo (1).
Ebbene, che il tempo esista o no, nell'un caso e nell'altro esìstono fuor d'ogni ragionèvole dubbio, per prova provata, gli orologi. E' assolutamente chiaro che se il tempo esiste, questi ordigni assùmono una funzione concreta ed un utilizzo pràtico, e la loro esistenza risponde ad una realtà con la quale èntrano in un rapporto per così dire dialèttico. Però se il tempo non esiste, gli orologi, contrariamente all'apparenza, assùmono un valore ben più profondo e un ufficio affatto decisivo: illùdono gli uomini circa l'esistenza dell'inesistente tempo. Intendo dire che chi fàbbrica orologi fàbbrica illusioni. E nulla è più fàcile che illùdersi giacché l'uomo, notava Demostene, crede vero ciò che desìdera; e se le ha perdute tutte, le illusioni, notava Giovanni Boine, le cerca. E l'illusione del tempo, si sa, è tra quelle che maggiormente responsabilìzzano chi le ingènera e le pratica. Fabbricare orologi significa dare all'èssere umano il modo di tracciarsi una via e, al caso, di seminarvi roseti e gramigne, d'agghindarla di festoni o di dissestarla di sùbiti dirupi. L'orologio con il suo contraddittorio andare verso il nulla adombra uno spettàcolo formidàbile di fantasmi che si sussèguono senza moto, dànzano senza passi, rìdono senz'occhi, piàngono senza làcrime... L'orologio piace perché s'invera in un dramma, in una commedia, in una farsa i cui personaggi sono reali sulla scena ed insieme finti rispetto a quanti se ne "commuòvono". L'orologio batte secondi, minuti, quarti, mezz'ore e ore. Batte lustri, e fin secoli. Se si rompe e s'arresta, incredibile dictu, pure il tempo si rompe e s'arresta. E dunque anche in siffatto modo l'orologio dà un ragguaglio sullo stato del tempo. L'illusione si còmplica e il prodigio s'illùmina. Guarde te! l'àlacre fabbricante patisce il crudo rimbrotto del possessore dell'orologio guasto mentre si aspetterebbe dallo sciocco cliente almeno un attestato di gratitùdine per il virtuosismo dell'inatteso e miracoloso fenòmeno...
Non mi è punto discaro ricordare qui a margine che detentori e prodi maestri degli ordigni atti alla stima del celato andar del tempo sono gli svizzeri, i quali in verdi e butirrose valli (alpestri e/o lacustri) s'ingègnano da illo tempore al buon èsito d'un molto pregiando prodotto. Dalle auree e più note Maisons ne svettano a mio avviso tre: Patek Philippe, Breguet, Vacheron Constantin. Indossa il Patek Philippe l'uomo che ascolta Bach e Webern, legge Tommaso d'Aquino e Wittgenstein, ama Mondriaan e Klee, ed inoltre il top manager, lo scienziato, l'inappagàbile. Indossa il Breguet l'uomo che ascolta Chopin e Ravel, legge Walter Pater e D'Annunzio, ama il Beato angelico e il Pontormo, ed inoltre l'indòssano l'esteta, il raffinato ed un tantinello "decadente" se non decaduto tout-court. Indossa il Vacheron Constantin l'uomo che ascolta Mozart e Mendelsshon, legge Schiller e Leopardi, ama Giorgione e Hartung, ed inoltre il viveur, il levigato, il nobile, il distratto...
Ogni uomo comunque badi ad indossare l'orologio d'acciaio (mai d'oro) ed automatico nel corso delle attività sportive, e solo in questo caso gli sia consentito il cronografo. Usi l'orologio d'oro giallo e automatico per il tempo dedicato all'attività professionale. D'oro rosa e automatico per il pomeriggio divagante. D'oro bianco (e mai d'acciaio) e a càrica manuale per la sera. Di plàtino, senza piccoli secondi e senza alcuna complicazione, ed a càrica manuale, per la gran sera. L'estrema raffinatezza di chi ha la responsabilità estètica d'indossare quest'ùltimo e prezioso orologio consiste nel non dargli la càrica, giacché nella notte il tempo è una volgare intrusione e l'orologio immoto ne è squisita, sentimental testimonianza.
*
(1) Fra un tempo inesistente ed un tempo rettilineo, osservo eccezionalissimamente il "tertium datur", ossia il tempo circolare. L'eterno ritorno. Anche questa un'illusione?
sabato 13 ottobre 2012
XII) Disavventura romagnola
Di Rimini alli 31 di agosto 1992
E' un riarso meriggio. Armato de' migliori propòsiti parto di buon'ora dalla stazione Termini di Roma sull'intercity diretto a Bologna, dove giungo tre ore appresso. Scendo dal treno, un'altra ora e monto sul locale per Rimini: ne scendo trafelato di calura e d'aspettative, e secondo le premurose e provvide indicazioni ricevute dagli organizzatori del concerto cui assisterò, vado via lesto ad attendere sull'antistante pensilina l'autobus per Misano: sito cui spetta il vanto d'ospitare, assieme ad abbronzati battaglioni di tudescotte e nederlandesine inebriate da salsedine maccaroni e indigeni guardi machistici, il sedicente "Paul McCartney's Liverpool Oratorio". Un "Oratorio" che ad esser sinceri non può aver composto il beatlestico McCartney per la semplice ragione che non sapendo costui, per sua ammissione, scrivere ed esprimersi in notazione musicale al modo dei compositori, è da opinare che si sia ristretto a fischiettarne i motivuzzi zampillanti int'a capa sua all'òrgano uditorio di un divoto mestierante... Ecco l'autobus, che dopo aver esaudita una mezza dozzina di fermate lungo il fracassoso lungomare della Rimini-Rimini, in fine giunge: ma non a Misano bensì a Cesena, suo capolinea. "Che fare?" si sarebbe dimandato quello. Già il miglior partito sarebbe interrogare lo chaffeur dell'autobùs circa il modo di raggiùngere, ove possibile, Misano. E' ciò che ùmile intraprendo, ricevèndone in urbana rèplica: "Attèndere un altro autobùs, qui d'accanto, che recherà la S.V. alla dèbita destinazione". Imbrunisce ma l'àere si rimane pregna d'intatta calura, e di dispetto...
Attendo una mezz'ora. Deinde, d'un residuo e pietoso balzo èccomi sul fàusto veìcolo che m'abbisogna e che sfrecciando da una fermata all'altra, l'una distante dall'altra una cinquantina di metri, s'avvìa al desiato loco vieppiù infittèndosi di bagnanti sgocciolanti e semignudi, italioti e foresti a guisa di un'Europa unita nel concreto dei fatti e dei contatti. Per ammazzare il tempo del tragitto scambio quattro ciarle col benevolente conducente. Che in risposta mi dice crudele: "Ma Lei è diretto a Misano Adriatico o forse a Misano Brasile?". Quello d'Amleto non è stato per vero dubbio più atroce del mio in atto... Rimminchionito, m'industrio in un'inane e protratta pensata colle pupille al cielo e il trabalzo nei coglioni; poi romanticamente esclamo: "Boh!". Lui mi sovviene misericordioso: "Di preciso, dove deve andare?". Risorto e ad alta voce per patente orgoglio, faccio: "Al concerto di McCartney". Uno sguardo di contrizione per l'abissale ignoranza pervade il volto invermigliato del conducente che mogio si limita a ricuperare un'atavita saviezza: "Le conviene scendere al capolinea, nel centro di Misano Adriatico". Scendo secondo suggerimento.
Liquefatto dal calore e simile a imbelle cera, risolvo di recare i bagagli e le mosce membra appo l'hotel graziosamente prenotatomi dall'ineffàbile organizzazione della manifestazione. Domando per vie e piazze di quell'albergo. Nessuno sa dov'esso sia. Ultima spe: un vecchierel canuto e arzillo, memoria storica della contrada, che mi certifica esser quel ricetto mica a Misano Adriatico ma a Misano Brasile. E che essendo distante ad un circa un chilometro, è meglio raggiungerlo coll'autobùs. Che passa ogni mezzora, Che infatti aspetto mezzora sotto l'ennèsima pensilina, lungo il caotico lungomare, il sudore che cola sulla faccia mia come la pioggia sul pineto, e i nervi che al paro di ranocchi folli mi guìzzano nel cranio.
Voilà il medesimo autobùs che avevo già utilizzato e che ora sta tornando in drio. Promana della pietà immensa degli occhi buoni del conducente: al vedermi risalire... Scendo a Misano Brasile, perdo una ventina di minuti, a tentoni e pencolante guadagno l'hotel come nel deserto l'oasi. Ma m'accorgo che è un miraggio: non è quello l'albergo che mi era stato comunicato dall'organizzazione. No sta da un'altra parte... Stremato più di una virtù esercitata, lo raggiungo. E' sera. Entro. Getto a terra gli intorcinati bagagli. Al banco della locanda una signora compassionevole risponde materna a nostra querula domanda: "No signore, il concerto di McCartney non si tiene a Misano Brasile, ma a Misano Adriatico, all'Arena. Le conviene prèndere...". La blocco sul compimento dell'infernal motto. Urlo. Chiedo verecondo perdono. Mi vien di piangere. Invoco un tassì. Accasciàndomi sul quale in un sonno disperato sono condotto verso l'Arena di Misa Adriatico. Il tassì esce dal paese, l'abbandona, sfreccia per antiche strade e immani campagne, s'interna nei bui più arcani di Romagna: osservo quei fari fendere fantasmi frignanti fra fuochi fatui: nessuna auto, nessun'ànima viva, nessun segno od atto di mondo sul pesto orizzonte. Taccio. Temo. Tremo.
Tiro un sospiro di sollievo allorché il tassista mi borbotta: "Siamo arrivati". Osservo meglio: l'Arena si delinea sprofondata nel metafìsico silenzio delle più esecrande tenebrie. Le giriamo attorno. Ci arrestiamo dove barbàgliano da lungi sinistri lucori... Manca poco all'inizio del concerto. Nessuna locandina, e ciò ch'è più bizzarro, non un solo spettatore. Guardinga perscrutatrice, una vettura dei vìgili urbani aggira la larvale e diserta costruzione. Scendo dal tassì, che se ne fugge via. M'accorgo di vagare nella notte sconfinata. Chiamo i vigili. Sono spariti. Deambulo, e invoco a postremo sostegno le ànime de' morti indìgeni...
Si sussèguono, pesanti come ciclòpici macigni, i minuti... Wow! m'imbatto in una congrega d'èsseri inabissati nel buio: sono accampati a ridosso di due pullman. In màniche di camicia se la sghignàzzano, màngiano accovacciati, trìncano, non subìscono ma accarèzzano quell'allucinazione kafkiana. Sono i professori ed i coristi dell'Orchestra di Praga scesi di Cecoslovacchia per dar corpo al summentovato concerto: ed ora abbandonati come me alla truce campagna, affidati ad una sorte vituperosa e grottesca. Frammezzo a loro s'aggira strabuzzato il direttore d'orchestra, ma non v'ha mènoma traccia dell'organizzatore... Da un ghiaccio altoparlante sugli spalti dell'Arena una calma e neutra voce donnesca reca il notturno annuncio: "Lo spettàcolo non ha luogo per motivi amministrativi". Non io, ma il pubblico evidentemente n'è già stato informato, della bidonata.
Persiste sotto le stelle il lezzo di una manifestazione musicale "all'italiana".
XI) La porcella Salome
Salome? Una maschietta tra Sade e Artaud. Scandalosa maschietta: e ancor più rovinosa la sua passione per Giovanni Battista (anche se, a ben guardare, una passione che non sia scandalosa è soltanto quel sentimento che ci rende spesso ridìcoli agli occhi del mondo)... In verità, a detta del sommo Mallarmé, Salome sotto sotto era frìgida, però noi non ci si vuol credere. E che? frìgida lei, Salome? E che cosa dovrebbe mai fare, più di Salome, una poveretta su questa terra per non cadere in sospetto di sì grave e pietosa deficienza, organica o psichica che sia? Giacché, se pur non ne combinasse tante di nùmero, questa eroina della libido rovente, quel poco che escògita appare, senza alcun forse, super: anzi, d'una madornal smoderanza. Figurarsi (horribile dictu) il celebèrrimo bacio, il lungo e lurco bacio da lei stampigliato sulle necròtiche labbra della testa decollata di Giovanni Battista: e chi se la sentirebbe di considerare l'atto soltanto una spacconerìa? come dire? una ragazzata? (Oh!, il bacio del buon Hayez!).
Fresca d'età, ancor vergine, ancora capricciosetta, e però già disfrenata a mo' d'incupidita Menade, Salome ha fatto innamorare di sé fior d'artisti e intellettuali di varia estrazione culturale: da Tiziano a Huysmans, da Flaubert a Moreau, da Heine a Florent Schmitt, per citarne taluni; né s'opini che un Gide, o un Proust, celatamente non ne subìssero, anche loro, la fascinazione ancorché biasimàssero apertis verbis i di lei paventèvoli spasmi perversi, non dissimilmente dal Keiser Wilhelm II al conòscere la Salome di Oscar Wilde posta in mùsica da Richard Strauss: la più concupiscìbile, la più intorcinata di bramosìa, la più dandy e decadente, la più tessuta d'accidia, d'enigma e d'isterìa fra tutte le Salome birichine consegnate alla storia.
L'opera del traviatissimo scrittore inglese e dell'ingordo musicista bavarese provocò in sul principio del sècolo ventèsimo (già inquinato) uno sconquasso di violenza rara: innùmeri coscienze rabbrividìrono al tristo avvento della fanciulla porcella, che abissava nella lussuria di gesta e nella connessa proluvie d'acconci suoni. Forse mai teatro musicale aveva tanto ardito; mai la casta bellezza dell'arte aveva con sì forsennati aromi corteggiato uno sfacelo etico; lambito così da presso il convulso mareggiare dell'Eros, e del Thanatos; così pregiudicatamente "coronato di rose il marciume" (l'espressione è tratta da Pétrus Borel, romanziere e licantropo francese della prima età dell'Ottocento, oggi non molto noto, ma un tempo non disistimato punto dai più sofisticati ambienti intellettuali).
Vita eterna a Salome.
X) Ravel, maestro di squisitezze
Maurice Ravel, gran maestro di squisitezze, concepisce la mùsica come officiatura estètica di sottili blandizie, come acuto artifizio di sensazioni rare, come fantasìa di giuochi rabescati, come pittura di nuances. La sua mùsica aborrisce la violenza plebea delle emozioni, il chiasso del pathos invadente, l'insulsa confessione degli accrocchi e dei gorghi interiori, la disperàggine incontrollata, come lo sconcio rimbombo delle felicità idiote. Nulla è preziosamente ricercato quanto la "semplicità" di Ravel, ma nulla è trasparente e dòcile e mitigato quanto il suo anelare, che basta un nulla a turbare, disciògliere, a far vanire nel più etereo de' silenzi. La sua Musa lieve paventa la realtà quotidiana e adora le inviolàbili magìe del sogno; veste l'esilità del proprio corpo con il pulvìscolo dei crepùscoli e delle aurore, e si ritrae smarrita dai meriggi scostumati che la sfanno. Ha in odio la Natura, la di lei calcolata imperfezione, e predilige invece la perfetta valentìa dell'infingimento, sia esso opera dell'intelletto rastremato o dei sensi. Ad interrogarla, la Musa di Ravel, non dà risposte ma lenti sorrisi innamorativi, e più sovente melanconìe estàtiche. S'aggrazzia ed involge d'antichezze antiquarie come di un pàllido velo di cipria; si protende nelle stagioni future con splèndide ritenutezze di castimonia; ma dùbita assai del presente in ragione della sguarnita immediatezza e petulanza d'ogni presente...
*
La Valse.
Un soffio di beato sperdimento, di deliquiosa ebrietà invade l'ànima al molle rigirìo dell'orchestra. "La Valse" gèrmina da un impercettìbile fruscìo dei contrabbassi onde affiorare, ondulare, espàndersi per contagio agli altri strumenti, come se nelle ore antelucane emergesse a poco a poco dall'orizzonte una sorta di figurazione enimmàtica, e a poco a poco si definisse e rischiarasse in un trionfo: che infine signoreggierà l'intero campo del cielo: esso pure rapito alla danza, al valzer del cosmo: al suo universale trabocco...
*
Bolero.
Un secco rullo dei tamburi. Un rullo desèrtico e dormioso, e però con l'ostinazione di un paradosso e l'implacabilità di una follìa. L'orchestra tace e s'appronta: obbedienti al ritmo, i musicisti s'incùrvano sui propri strumenti in attesa dell'evento madornale: è il Bolero, le cui avvisaglie mandano barbagli spasmòdici. Il pubblico si rannicchia nelle poltrone d'un rosso che scotta, non più sfioràndosi l'un l'altro ma ciascuno a sé, nell'ansietà del cògnito (agg.) futuro (sost.) che gli toccherà di lì a poco: a poco a poco. Aleggia un'aura di fantasmagòrica cospirazione mentre torme di pulvìscoli alchèmici vanno calamitàndosi e raggrumàndosi alla costituzione d'un immane fantasma di danza...
Primo ad entrare nella danza sul rullo già piccante dei tamburi è il flauto donde si snoda giòvane e òndula il primo brusìo di voluttà. Come Ida Rubinstein, divina danseuse ritta sul tàvolo di un'osterìa affumicata fra le vampe dell'ardore maschile che la ghermìvano al suo Bolero in fieri, così la piana della compàgine sinfoniale prende a vibrare, flèttersi e inarcarsi quale onda oceànica invitata dalla rosea mollezza del vento. I tamburi s'espàndono tra il pùbblico ormai magato, si moltìplicano, si centùplicano all'avvento progressivo delle voci strumentali che flùttuano sinuose d'ebrietà, dimèntiche nello sperdimento della smagliante eufonìa. Voilà la kermesse vieppiù saliente: il pùbblico febbricoso, dalle gote arroventate, vibra all'irruzione degli sciami d'arpe e violini, degli esèrciti di percussioni e ottoni, che nel crescendo della vertìgine corale metamòrfosano la sensualità della danza in un'orgia coribàntica... Il Bolero frèmita. E' d'un'enormezza paventevole, incoercìbile massa sonora in brace, rullo mastodòntico che disìntegra l'immàgine della realtà, trèmola sul mondo come l'accecato ciclope tonitruante sull'acme rupestre....
Le genti in ascolto rabbrividiscono: ormai sono affatto affatturate, a tutto disposte come non mai.
*
La Valse.
Un soffio di beato sperdimento, di deliquiosa ebrietà invade l'ànima al molle rigirìo dell'orchestra. "La Valse" gèrmina da un impercettìbile fruscìo dei contrabbassi onde affiorare, ondulare, espàndersi per contagio agli altri strumenti, come se nelle ore antelucane emergesse a poco a poco dall'orizzonte una sorta di figurazione enimmàtica, e a poco a poco si definisse e rischiarasse in un trionfo: che infine signoreggierà l'intero campo del cielo: esso pure rapito alla danza, al valzer del cosmo: al suo universale trabocco...
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Bolero.
Un secco rullo dei tamburi. Un rullo desèrtico e dormioso, e però con l'ostinazione di un paradosso e l'implacabilità di una follìa. L'orchestra tace e s'appronta: obbedienti al ritmo, i musicisti s'incùrvano sui propri strumenti in attesa dell'evento madornale: è il Bolero, le cui avvisaglie mandano barbagli spasmòdici. Il pubblico si rannicchia nelle poltrone d'un rosso che scotta, non più sfioràndosi l'un l'altro ma ciascuno a sé, nell'ansietà del cògnito (agg.) futuro (sost.) che gli toccherà di lì a poco: a poco a poco. Aleggia un'aura di fantasmagòrica cospirazione mentre torme di pulvìscoli alchèmici vanno calamitàndosi e raggrumàndosi alla costituzione d'un immane fantasma di danza...
Primo ad entrare nella danza sul rullo già piccante dei tamburi è il flauto donde si snoda giòvane e òndula il primo brusìo di voluttà. Come Ida Rubinstein, divina danseuse ritta sul tàvolo di un'osterìa affumicata fra le vampe dell'ardore maschile che la ghermìvano al suo Bolero in fieri, così la piana della compàgine sinfoniale prende a vibrare, flèttersi e inarcarsi quale onda oceànica invitata dalla rosea mollezza del vento. I tamburi s'espàndono tra il pùbblico ormai magato, si moltìplicano, si centùplicano all'avvento progressivo delle voci strumentali che flùttuano sinuose d'ebrietà, dimèntiche nello sperdimento della smagliante eufonìa. Voilà la kermesse vieppiù saliente: il pùbblico febbricoso, dalle gote arroventate, vibra all'irruzione degli sciami d'arpe e violini, degli esèrciti di percussioni e ottoni, che nel crescendo della vertìgine corale metamòrfosano la sensualità della danza in un'orgia coribàntica... Il Bolero frèmita. E' d'un'enormezza paventevole, incoercìbile massa sonora in brace, rullo mastodòntico che disìntegra l'immàgine della realtà, trèmola sul mondo come l'accecato ciclope tonitruante sull'acme rupestre....
Le genti in ascolto rabbrividiscono: ormai sono affatto affatturate, a tutto disposte come non mai.
IX) Amo Orlando, monsieur fou
Come tutti anch'io amo molte mùsiche. Ad esempio quelle di Orlando di Lasso, il fiammingo vivuto tra il 1532 e il 1594, il mùsico nevròtico: "Monsieur fou", come scrive di sé. Intellettuale cosmopolita e maccheronicamente poliglotta, attento e sensìbile alle moltèplici correnti letterarie e poètiche che àgitano e vivìficano la seconda metà del sècolo dècimo sesto, amico a Pierre Ronsard ed a quelli della Pléiade, frequentatore di nòbili e sovrani, dotato d'un humour rabelesiano eppure profondamente credente e affatto coinvolto nel clima spirituale dettato dalla Controriforma tridentina. Il suo genio abbraccia tutti i gèneri: dal mottetto al madrigale, dal Lied tedesco alla villanella italiana, dalla sacra messa alla licenziosa od oscena chanson francese. La sua, una produzione gigantesca di oltre duemila numeri...
S'è detto d'Orlando che è il mùsico più rappresentativo dell'età della Rinascenza, il più profondamente umano: assai più del Palestrina; curioso di tutto, aderente ai vari stili onde poter esprìmere le polièdriche nuances del proprio pensiero; una vetta dell'elevatura di Bach, Mozart e Beethoven, purtroppo coll'esiziale handicap di non rientrare nella storia di quei tre lisi sècoli - Sei, Sette e Ottocento - la cui appartenenza pare che la cultura e il consumo musicale contemporanei pongano quale condizione necessaria e sufficiente perché un compositore sia studiato, valutato, eseguito ed amato.
E di Lasso amo, sovr'a tutto, i "Salmi Penitenziali" che tendono ad una trasparenza sonora e a una lucentezza spirituale sì pregnanti che se diffusi riscuoterebbero clamoroso consenso tra i giòvani del nostro tempo insulso, vogliosi forse di un messaggio per così dire "consolatorio", ovvero di un'arte demistificata volta a rispòndere all'ansia indistinta d'eterno che pare serpeggiare e variamente pulsare nella loro esistenza vieppiù scempiata e reificata. I Salmi, i cui segmenti melòdici si sciòlgono in bagliori diatònici, oscìllano come in una aspettativa trascendente, tra lunghi silenzi e meditazioni, percorsi in ampi spazi da una grande sazietà di pace; e soltanto di lontano s'avvèrtono gli echi delle pene del mondo. Alto e solenne magistero lassiano, esaustivo della gran civiltà fiamminga, in una sìntesi ove non sono estranei gli influssi della vocalità propria della Scuola veneziana e romana, ma reinterpretata in un clima di più dòcile e stemperato cromatismo. Di rado vi è sfiorata l'esuberanza dei volumi fònici palestriniani: una cifra di pùdico lirismo e un elegìaco pastello attènuano le subitanee accensioni che la piena del temperamento e la commozione dell'ispirazione potrèbbero elevare ad emblema dell'impulso creativo.
VIII) Democritos dixit
"Sono sempre irragionèvoli le speranze dei coglioni".
*
"Savio è chi non s'arrovella per le cose che non ha, ma gode delle cose che ha".
*
"E' davvero una bischerata non adattarsi ai casi inevitàbili che la vita ti getta addosso".
*
"La donna è molto più scaltrita dell'uomo nell'architettar il male".
*
"E' un'impresa ardua educare i figli: se uno consegue il successo, vi perviene in ogni caso tra mille perìcoli e patemi d'ànimo, mentre se a uno gli va male non v'ha dolore al mondo che possa superare il suo".
*
"Se non avrai bisogno del molto, il poco ti parrà molto".
*
Si dice "mal comune mezzo gaudio". Una stronzata. "L'indigenza generale è un male molto più drammàtico ed angoscioso di quella che colpisce il sìngolo, perché in quel caso non resta speranza d'aiuto".
*
"Il vecchio ha avuto la fortuna di èssere giòvane. Ma il giòvane non sa se arriverà alla vecchiaia. Pertanto il bene trascorso e goduto è da preferirsi ad un bene futuro ed incerto".
*
"La vecchiaia è una mutilazione dell'uomo".
*
"Ogni paese della terra è aperto all'uomo saggio, giacché la patria dell'ànima virtuosa è l'universo intero".
*
"Vale di più la sèmplice speranza della persona colta che tutta la ricchezza dell'ignorante".
*
"Gli imbecilli, invece della vecchiaia, tèmono la morte".
*
"I maiali folleggiano nel letame".
*
"Il discorso è l'ombra dell'azione".
*
"Opinione è il freddo, opinione il caldo. Verità soltanto gli àtomi e il vuoto".
*
"Nulla conosciamo secondo verità, perché la verità giace nell'abisso".
*
"La bellezza del corpo è una dote da animale se non s'accompagna all'intelligenza".
*
"Non s'esèrciti la donna a ragionare. Ché sarebbe un casino".
*
"Se non capisci i complimenti che ti fanno, ritiènili adulazione".
*
"I taccagni hanno il destino delle api: ammassare come se dovèssero vìvere in eterno".
*
"Per poter avere il pene eretto quando si vuole? Ungersi le estremità con miele misto con un po' di pepe macinato".
*
Dice Cicerone: "Democrito, perduta la vista, non poteva ovviamente distìnguere il bianco dal nero, ma poteva egualmente discèrnere il bene e il male.... Anzi, egli reputava che la vista interiore dell'ànima ricevesse impedimento dalla vista corporea, e mentre tante persone spesso non vèdono neppure ciò che hanno davanti ai piedi, egli percorreva l'infinito con il solo intelletto, senza trovare mai un lìmite che lo arrestasse".
*
Dice Gellio: "Nei libri di storia greca è riferito che il filòsofo Democrito, uomo degno di venerazione oltre ogni altro, e tra i più autorèvoli degli antichi, si privò spontaneamente dell'uso della vista poiché reputava che le riflessioni e le lunghe meditazioni del suo ànimo nell'indagare i principi e le cause della natura sarèbbero divenute più spedite e più esatte se le avesse liberate dalle attrattive che offre la vista e dagli ostàcoli che provèngono dagli occhi". E' notorio che a Democrito piacevano da morire i corpi donneschi, cui non sapeva resìstere, ovvero rinunziare. Si tramanda che la sua erezione, ohibò, fosse continua.
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"Savio è chi non s'arrovella per le cose che non ha, ma gode delle cose che ha".
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"E' davvero una bischerata non adattarsi ai casi inevitàbili che la vita ti getta addosso".
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"La donna è molto più scaltrita dell'uomo nell'architettar il male".
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"E' un'impresa ardua educare i figli: se uno consegue il successo, vi perviene in ogni caso tra mille perìcoli e patemi d'ànimo, mentre se a uno gli va male non v'ha dolore al mondo che possa superare il suo".
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"Se non avrai bisogno del molto, il poco ti parrà molto".
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Si dice "mal comune mezzo gaudio". Una stronzata. "L'indigenza generale è un male molto più drammàtico ed angoscioso di quella che colpisce il sìngolo, perché in quel caso non resta speranza d'aiuto".
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"Il vecchio ha avuto la fortuna di èssere giòvane. Ma il giòvane non sa se arriverà alla vecchiaia. Pertanto il bene trascorso e goduto è da preferirsi ad un bene futuro ed incerto".
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"La vecchiaia è una mutilazione dell'uomo".
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"Ogni paese della terra è aperto all'uomo saggio, giacché la patria dell'ànima virtuosa è l'universo intero".
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"Vale di più la sèmplice speranza della persona colta che tutta la ricchezza dell'ignorante".
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"Gli imbecilli, invece della vecchiaia, tèmono la morte".
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"I maiali folleggiano nel letame".
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"Il discorso è l'ombra dell'azione".
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"Opinione è il freddo, opinione il caldo. Verità soltanto gli àtomi e il vuoto".
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"Nulla conosciamo secondo verità, perché la verità giace nell'abisso".
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"La bellezza del corpo è una dote da animale se non s'accompagna all'intelligenza".
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"Non s'esèrciti la donna a ragionare. Ché sarebbe un casino".
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"Se non capisci i complimenti che ti fanno, ritiènili adulazione".
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"I taccagni hanno il destino delle api: ammassare come se dovèssero vìvere in eterno".
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"Per poter avere il pene eretto quando si vuole? Ungersi le estremità con miele misto con un po' di pepe macinato".
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Dice Cicerone: "Democrito, perduta la vista, non poteva ovviamente distìnguere il bianco dal nero, ma poteva egualmente discèrnere il bene e il male.... Anzi, egli reputava che la vista interiore dell'ànima ricevesse impedimento dalla vista corporea, e mentre tante persone spesso non vèdono neppure ciò che hanno davanti ai piedi, egli percorreva l'infinito con il solo intelletto, senza trovare mai un lìmite che lo arrestasse".
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Dice Gellio: "Nei libri di storia greca è riferito che il filòsofo Democrito, uomo degno di venerazione oltre ogni altro, e tra i più autorèvoli degli antichi, si privò spontaneamente dell'uso della vista poiché reputava che le riflessioni e le lunghe meditazioni del suo ànimo nell'indagare i principi e le cause della natura sarèbbero divenute più spedite e più esatte se le avesse liberate dalle attrattive che offre la vista e dagli ostàcoli che provèngono dagli occhi". E' notorio che a Democrito piacevano da morire i corpi donneschi, cui non sapeva resìstere, ovvero rinunziare. Si tramanda che la sua erezione, ohibò, fosse continua.
VII) Amsterdam, nudo di vecchio
NB. Amsterdam si pronuncia ponendo l'accento sull'ùltima "a": Amsterdàm.
Nella buriana che infèrvora Amsterdam nei mesi estivi si distingue Leidseplein, piazza variopinta tra le più frequentate, che accoglie birrerìe, ristoranti, gelaterìe, teatri, coffee shop. Sullo spiazzo centrale, percorso da fulminanti tramwey, che per nessuna ragione al mondo rallenterèbbero la folle corsa verso il capolinea (quasi che poi non dovèssero tornar indietro), una torma di saltimbanchi, prestigiatori, clown, complessini musicali, mangiafuoco, caricaturisti e giocolieri si dà il cambio, dalla tarda mattinata a notte inoltrata, per intrattenere e svagare il popolo dei turisti ciondolanti e bendisposti.
Fra i consueti intrattenitori c'era un tempo un signore assai distinto. A prima vista pareva un professore di liceo, un farmacista d'antico stampo, un notaio di nòbile schiatta, un severo crìtico d'arte. Inforcava sul volto cavo e mitteleuropeo vecchi occhiali di similoro. Nulla da obiettare circa l'abbigliamento: giacca e cravatta. Giungeva in piazza con un valigetta nera ed una lunghìssima pèrtica che puntava sul terreno, agganciata con due corde ad un lampione e ad un albero. Apriva la valigetta e ne cavava un consunto mangianastri ed una cassetta musicale: il "Valzer delle Ore" del buon Ponchielli.
Mentre la musica si avviava e la gente dei cinque continenti si faceva d'attorno incuriosita, con ponderata calma lui si sfilava giacca, cravatta, camicia, pantaloni, calze e scarpe. Restava con un mini perizoma un po' sbrillentato sul davanti. Se non fosse stato per la pancia alquanto molliccia, il fìsico costoloso da ex atleta non avrebbe mai fatto supporre che il signore avesse abbondantemente superato la settantina. Quindi si ungeva le mani affilate e saliva ignudo sulla pèrtica con ritmo cadenzato, ossia valzeristico: quasi scimmia ammaestrata. Conquistato il cùlmine della pèrtica fra applausi misti d'affetto ed ironìa dei ventruti bevitori di birra e dei turisti nullafacenti, il Nostro si poneva perpendicolare alla pèrtica come fosse bandiera distesa al vento, roteando da destra a sinistra e viceversa. Esclamazioni, risa, incoraggiamenti nei più diversi idiomi. Ma, ad èssere sinceri, la piazza sottendeva un tàcito sentimento di pena, o di melanconìa, per quel nudo vecchietto che si moveva per miseria o, meglio, per folle narcisismo. Lui non ascoltava le grida dei ragazzi e dei bambini che lo pigliavano a gabbo ai piedi della pèrtica. Lui era in alto, ravvolto dalla nuvola del valzer ponchiellesco. Il suo esercizio sembrava sublimarsi ed assumere il significato di un disvelamento dell'èssere: in armonìa con il sole o, all'uopo, con le stelle.
L'uomo col perizoma non scorgeva più nessuno: non i tramway corsaioli, non l'onda dei turisti, non i cantambanchi rivali: non già perché avesse dimenticato nella cassetta gli occhiali oleosi, ma perché l'utopìa del cimento lo calamitava ed assorbiva in toto. Di lassù alzava l'ossuto braccio in segno di saluto. Attendeva per qualche secondo. Poi discendea lento lento: come ad assaporar la vittoria e l'annesse ovazioni. Poggiava i piedi per terra con un saltello fra gli "hurrà!" dei boccali di birra sollevati. Poi spengeva con malcelato rimpianto l'um-pa-pa del valzer, inforcava gli occhiali, si ravviava gli sparuti capelli, s'aggiustava il perizoma affiochito. Il pùbblico ormai non gli dava più retta, intento ad altre attrattive. Il professore staccava la pertica dal suolo, raccoglieva qualche centèsimo misericorde, si rivestiva con ordine e metodo, e se ne andava senza fretta. Imboccava un vicolo. Dove andasse nessuno lo sapeva, e, d'altronde nessuno ha mai avuto interesse a saperlo. Amsterdam è un dedalo di possibilità arcane...
In ogni caso lui sarebbe tornato dopo qualche ora.
VI) Amsterdam, le puttane
Verso la mezza mattinata molte sono già sul posto di lavoro, dietro la porta-finestra.
E' inverno. E' ancora freddo, fuori, e loro vi pòngono rimedio con una stufetta accesa in un canto. A quell'ora, per i vìcoli e le stradine del quartiere a luci rosse, disposte lungo le sponde di un canale nel pieno centro di Amsterdam, la gente trànsita in fretta: massaie ciarliere con la borsa della spesa, impiegati imbacuccati in voluminose giacche a vento, nelle mani inguantate la borsa rigonfia dell'ufficio ed ai piedi gagliarde scarpe contadinesche. Passano con noncuranza davanti alle porte-finestre, senza curiosità, senza malànimo, senza immaginazioni sessuali: distratti come noi quando ogni mattina si passa dinanzi al sòlito monumento che la gente viene da ogni dove ad ammirare.
Nelle stesse viuzze del quartiere a luci rosse, contigue alle casette preposte al miraggio di un fugace diletto carnale, si còntano casette di tutt'altro impiego. Ospitano, per esempio, negozietti di frittelle nordafricane dai profumi spessi e spossati; semideserti (di gay e lesbiche) empori del sexy-shop con parate di cassette di pornofilm smoderati, di cùmuli di riviste sgualcite, di madornali ordigni eròtici dall'impiego esilarante; e botteghe d'un finto oriente, al pari semideserte, che esibìscono stinti e impolverati utènsili per fumare majurana, hashish e varie erbe, polle, filtri e narghilé; associazioni religiose per l'assistenza dei pòveri; cabine-film ad uso del sìngolo spettatore dotate di sgabello regolàbile e di pròvvido ròtolo di carta igiènica; teatrini in cui si fa sesso vero e spericolato sul palcoscenico (ambitissime le prime file); un ostello della gioventù dove èntrano e donde èscono studentesse timorate di Dio che trascòrrono davanti alle belles de jour dall'intrèpido désabillé come dinanzi a un cartellone pubblicitario imparato a memoria; un oscuro laboratorio d'antiquariato frequentato da vecchiarde contesse di Fiandra e scrignuti vecchietti ebrei; l'appartamentino al primo piano di una famigliola giòvine ed operosa che senz'affanno confida in un avvenire più pròspero per migliorare, fra l'altro, anche l'alloggio...
Nel periodo di basso afflusso di stranieri, il quartiere, la mattina, è una realtà modesta e intorpidita: situazione provvisoria: in attesa delle nuove stagioni che immèttano nella bella capitale nederlandese il turismo frenètico e spensierato. Ma non dorme, il quartiere. Attenua l'attività, però non la dismette. Le case linde e eguali, di due piani al più, talune fregiate all'antica maniera olandese, un decoro secolare che nessun commercio ardito può e vuole scalfire. Alcune camerette sono vuote di donne: alla porta un cartello ìndica alle signorine interessate il nùmero telefonico dell'affittuario. In altre, operai sono disposti alla ripulitura delle pareti segnate e dei pavimenti lisi. Campeggia nel centro della zona amantesca una delle chiese più affascinanti ed antiche della capitale.
Le libere amatrici attèndono dietro la porta-finestra. Sono giunte dai continenti più remoti ad esercitare l'immemoràbile mestiere. Pàgano le tasse e sono rispettate in quanto lavoratrici (1). La navigata esperienza, la consuetùdine al luogo e alla positura specìfica le hanno accomunate: più che fèmmine paiono manichini, poggiati tra uno specchio verticale ed una sediola: sul fondo, nella penombra, una brandina coperta d'opachi fiorami. Sulle loro labbra di rubino è stampigliato un ammicco stereotipato: più accentuato nelle europee, fasciate in nere e lucide guàine, a rimarcare visi di una finta fatalità e corpi fatti alabastrini da improbàbili unguenti. Più sfumato ed arcano l'ammicco nelle orientali, dai volti dissugati o quasi esangui: esseri astratti, femmes metafisiche dalle membra lunari, mesti Pierrots dalle dita filiformi nell'atto di compilare un attestato di rassegnazione. Le africane fanno parte a sé: percorse da trucchi esorbitanti e bistri violenti, sontuosi occhi di foco e monumentali labbra, pùlsano nei corpi schiacciati alle porte-finestre quali leonesse costrette a troppo angusti spazi: in gabbie da disvellere per dar pieno respiro al traboccamento del tùrgido petto di mènadi nascostamente rabbiose e ribelli.
Fra la popolazione che la mattina percorre il quartiere, va da sé, anche la potenziale clientela. Alcuni in bicicletta, ciondolando il capo da un marciapiede all'altro al ritmo della pedalata. Altri a piedi. Chi con il passo cèlere, come assorto in altre urgenze ed inquietùdini, lancia di sottecchi all'etera momentaneamente indagata uno sguardo furtivo, e ripassa, stavolta con più indugio, e la riguarda con più metodo, e se giunge alla terza ispezione, s'arresta dinanzi alla porta-finestra e si dispone alla contrattazione. Accadimento scrutato dalle "colleghe" più anziane con nonchalance mista ad una punta di gelosia professionale. Coll'indice vibratile della mano sinistra l'alacre adescante sprona il cliente a cèdere alle brame mentre le cinque dita distese della mano destra ìndicano l'esatta spesa da sostenere per intraprèndere il moto. Al felice compimento della contrattazione l'infocata blandizia di quel sorriso donnesco si sfa d'un tratto in un'espressione vuota e anònima, e l'ardente preàmbolo si muta in un àrido preludio all'agire sbrigativo. La porta-finestra viene dischiusa, l'uomo sgattàiola dentro, una tenda tirata occulta il disinganno pròssimo venturo....
Altri, più arditi e giovanotti, irròmpono decisi, e incollando la faccia sulla porta-finestra indàgano dentro. Richiàmano la cocotte prontamente scelta con un cenno sintetico, spavaldo e virile, gesto alla brava, che non sai più chi sia l'offerente, chi l'acquirente. Fanno ingresso nel microcasino: non v'ha dubbio, sono habitués. L'accordo economico è stato raggiunto una volta per tutte in tempi trascorsi, e la soddisfazione che appalèsano dice che conseguiranno sconti duraturi: chissà se non abbonamenti.
A volte compàiono lungo i vìcoli gruppi di turisti in tour: mariti, mogli, nonni, nipoti, ricchi di màcchine fotogràfiche e cineprese. E dopo aver apprezzato i canali, il museo Van Gogh, il mercatino dei fiori, i polder etc... ora ossèrvano con imbarazzati sorrisi le puttane in schiera. Purché non fotografate, le Nostre non bàttono ciglio: mute come pesci, immòbili quali statue: fa parte del giuoco. A volte compàiono anche gruppetti d'adolescenti indìgeni, sghignazzanti e divertiti. Sfrècciano sui pàttini "rollerblade" nel dèdalo delle viuzze e lànciano alle donne occhiate che pretenderèbbero d'èssere assassine e in realtà sono di pècora. Quelle Vèneri materne non ci fanno caso. E chi è intenta alla manicure, chi a ravviarsi la rigonfia capellatura, chi a sonnecchiar sulla sediola o a sfogliare indolente una rivista di cucito, o a sbocconcellare patatine fritte, continua. E i ragazzotti se ne vanno tosto in un vociare allegro. Prima o poi toccherà anche alla maggior parte di loro...
Attenzione però: incombe sul quartiere a luci rosse una minaccia che ferisce l'ànima: qualche moralista da strapazzo e qualche furbo speculatore avrèbbero deciso di promuòvere la trasformazione delle case dedicate all'amore in locali dedicati alla moda e ad altre amenità. Come a dire abdicare, nei Paesi Bassi, alla coltivazione dei tulipani a favore delle màmmole.
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(1) A loro è dedicato anche un pìccolo monumento, come un altro monumento, in un altro luogo della metròpoli, è dedicato agli omosessuali vìttime delle persecuzioni e dell'intolleranza civile.
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